“Economia di tempo, in questo si risolve in ultima istanza ogni economia” (Karl Marx, Grundrisse)
Viviamo nell’epoca della fretta, un “tempo senza
tempo” in cui tutto corre scompostamente,
impedendoci non soltanto di vivere pienamente
gli istanti presenti, ma anche di riflettere
serenamente su quanto accade intorno a noi.
Di qui il paradosso di una filosofia della fretta,
nel tentativo di far convergere la “pazienza
del concetto” e i ritmi elettrizzanti del mondo.
L’endiadi di essere e tempo a cui Martin
Heidegger aveva consacrato il suo capolavoro
del ’27 sembra oggi riconfigurarsi nell’inquietante
forma di un perenne essere senza tempo.
Figlio legittimo dell’accelerazione della storia
inaugurata dalla Rivoluzione industriale
e da quella francese, il fenomeno della fretta
fu promosso, sul piano teorico, dalla passione
illuministica per il futuro come luogo
di realizzazione di progetti di emancipazione
e di perfezionamento. La nostra epoca
“postmoderna”, che pure ha smesso di credere
nell’avvenire, non ha per questo cessato
di affrettarsi, dando vita a una versione del tutto
autoreferenziale della fretta: una versione
nichilistica, perché svuotata dai progetti
di emancipazione universale e dalle promesse
di colonizzazione del futuro. Nella cornice
dell’eternizzazione dell’oggi resa possibile
dalla glaciale desertificazione dell’avvenire
determinata dal capitalismo globale, il motto
dell’uomo contemporaneo – mi affretto, dunque
sono – sembra accompagnarsi a una assoluta
mancanza di consapevolezza dei fini
e delle destinazioni verso cui accelerare
il processo di trascendimento del presente.
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