martedì 29 novembre 2011







L'ASSOLUTO-LA PRIMA CAUSA


di GIOVANNI BORTOLI







"... Io sono fermamente convinto che l'uomo di media cultura di questa civiltà, con gli strumenti che ha a sua disposizione, cioè le sue conoscenze e la sua intelligenza, possa farsi un'idea di Dio che non sia un oltraggio alla ragione e che, al tempo stesso, sia aderente alla realtà.  ...




Siccome a Dio si fa risalire l'origine di tutto quanto esiste, prima di credere che Dio esiste, è lecito che io, uomo di questa civiltà, mi domandi se l'esistente ha avuto un origine, oppure non sia esistito da sempre; che parta cioè dalla posizione dei cosiddetti "atei" e mi ponga, come ipotesi di lavoro, che la realtà, nella quale siamo immersi, sia perfettamente materiale e che non sia stata "originata", cioè sia esistita da sempre.


E' chiaro che, in questo caso, non avrebbe una fine, perchè ciò che fosse esistito da sempre, non potrebbe cessare di esistere.  Io posso immaginare che una civiltà distrugga se stessa, ma non che la materia, posta come unica realtà esistente, cessi di esistere.


Se invece posso ragionevolmente credere che il cosmo, ossia l'insieme degli universi, finisca consumato dalla sua stessa esistenza, allora è chiaro che ha avuto un origine, e se ha avuto un origine è altrettanto chiaro che tutto quanto è esistito, esiste, esisterà, non è tutto in senso assoluto, perchè oltre quello esiste per lo meno una causa generatrice, cioè una causa che era prima che l'esistente fosse.  Vedremo poi che considerazioni fare su questa causa.




Allora so che le osservazioni degli astronomi moderni hanno portato alla constatazione che viviamo in un cosmo in espansione, cioè che gli universi si allontanano gli uni dagli altri e da un centro dello spazio (centro ideale ovviamente).


Sulla base di questi dati di fatto incontrovertibili, sono nate due principali ipotesi per spiegare l'origine e lo sviluppo del moto di traslazione degli universi; entrambe le ipotesi concordano sull'origine che sarebbe la conseguenza di una esplosione avvenuta in questo punto ideale, in questo centro ideale del cosmo.
Divergono invece sullo sviluppo.  Infatti, secondo la prima, la materia dei corpi stellari, quando questi hanno raggiunto la velocità "critica" di allontanamento dal  centro, si smaterializzerebbe e causerebbe così la graduale ma totale fine del cosmo astronomico.




Ora, per pochi istanti, consentitemi di tornare nei miei panni di disincarnato per affermare che quest’ipotesi è perfettamente azzeccata, come lo dimostra la formula einsteiniana secondo cui la massa di un corpo in movimento è uguale alla massa dello stesso corpo diviso la radice quadrata di uno meno il quadrato della velocità a cui è sottoposto il corpo diviso il quadrato della velocità della luce.
Einstein chiama questa velocità critica "velocità della luce".  Ponendo che la velocità a cui è sottoposto il corpo (nel nostro caso la velocità di traslazione di questi sistemi stellari che si espandono) raggiunga la velocità della luce, ossia la velocità critica, e vedete, voi matematici, che cosa succede alla massa del corpo in movimento secondo questa formula.




Detto questo chiudo la parentesi e me ne torno nei miei panni di incarnato a esaminare le ipotesi di cui dicevo.
Secondo l'altra ipotesi, invece, gli universi, raggiunto un punto nello spazio, invertirebbero la marcia e tornerebbero a concentrarsi nel punto ideale dal quale partirono e dove, a seguito di una nuova esplosione, nuovamente ripartirebbero e così via.


Ora, noi intanto possiamo osservare che il limite dove, secondo la prima ipotesi, la materia che compone i corpi stellari, si smaterializzerebbe, ovvero, nell'altra ipotesi gli universi invertirebbero la marcia e tornerebbero a concentrarsi nel punto ideale centrale, sarebbe in ogni caso un limite al cosmo, anche se lo spazio fosse di tipo euclideo, cioè infinito e indipendente dalla materia.  Dunque secondo l'una e l'altra ipotesi il cosmo sarebbe limitato e necessariamente sferoidale.




Ora, ciò che è limitato non può avere una durata illimitata, e questo mi basterebbe, perchè se il cosmo finisce, è chiaro che ha avuto un'origine e quindi una causa.  Ma io preferisco invece proseguire nell'esame delle due ipotesi per vedere se mi conducono ad una diversa conclusione.


Ripeto: secondo la prima, il destino del cosmo astronomico sarebbe la graduale ma totale fine per smaterializzazione; secondo l'altra sarebbe una sorta di moto perpetuo, di andirivieni dal centro alla periferia di questi corpi celesti, di questi universi.




Ora, io che mi reputo un ateo serio e coerente, debbo prendere in considerazione solo la seconda ipotesi, perchè, come ho detto prima, se ammetto la prima, ammetto la fine del cosmo, e quindi l'inizio, e quindi la causa.  Debbo invece vedere se posso ragionevolmente credere che il cosmo sia una sorta di perenne "pulsazione", un moto perpetuo di questi corpi celesti, oppure una trasformazione continua della materia che lo compone.  Il "Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma" sembrerebbe confermare questa ipotesi.




Ora, io so che il principio della conservazione della massa, dichiarato universalmente valido dalla meccanica classica, ed il principio della conservazione dell'energia (visto che si è scoperta la relazione che lega la massa all'energia) sono stati invece smentiti, direi in modo dirompente, dalla scoperta dell'energia atomica.  Non solo, ma anche più recentemente, dall'esame di certi fenomeni che avvengono nello spazio intergalattico.




Ora, la mia cultura non specialistica, di uomo di questa civiltà, non mi consente di addentrarmi con osservazioni scientifiche nell'esame di eventi cosmici, è chiaro; posso però capire, dai fatti con cui mi scontro tutti i giorni, un principio molto importante e cioè che per fare un lavoro ci vuole energia, e che nessuna macchina e nessun sistema non produrrà mai più energia di quanta ne consumi, altrimenti il moto perpetuo non sarebbe più un assurdo meccanico.     ...................




Allora, tornando alla mia teoria, mi pare che io possa pensare con ragione che se anche questo moto di va e vieni, dal centro alla periferia, dei sistemi stellari, si ripetesse indefinitamente, l'energia necessaria a questo moto, ancorché si generassi in qualche modo, magari a spese della massa della materia, non si rigenererebbe mai in misura totale, per cui a lungo andare sarebbe la stasi, cesserebbe il moto del cosmo.  Che poi questa stasi riguardi il divenire della materia o la materia in se stessa, per l'aspetto che mi sono posto del problema non fa alcuna differenza, perchè pervengo a concludere che se il divenire cessa, vuol dire che ha avuto un inizio ed una causa, e questo mi basta.


Tuttavia mi sembra più logico pensare che, se cessa il moto in seno al cosmo, non cessa solo il moto di traslazione degli universi, ma cessa il moto delle particelle e dei corpuscoli in seno alla materia e quindi cessa la materia e cessa lo spazio, emanazione della materia; e cessa il tempo, dimensione dello spazio.
E la dimensione immediatamente più sottile?


Noi abbiamo visto che il riassorbimento nel piano fisico consiste nella migrazione della materia dal centro alla periferia del cosmo; nel piano astrale il movimento è perfettamente l'opposto, dalla periferia l'energia si ritrae, si concentra nel centro ideale; il piano mentale è analogo al piano fisico: la mente si spersonalizza, si espande, raggiunge la periferia; il piano akasico è simile al piano astrale, cioè la rifrazione di sentimento in un unico punto del sentire; nel piano spirituale, il Logos, centro di questo piano che si espande, torna nella indifferenziazione.


Vedete come, in fondo, questi movimenti caratterizzino, poi, il destino degli individui: la mente che si spersonalizza, l'energia che si ritrae, il sentimento che si fonde in una comunione unica, il Logos che torna alla vastità del tutto.




Dopo aver detto tutte queste belle cose ho il dovere, però, di avvertirvi e di dirvi che per farle capire a voi, noi ci serviamo di immagini di comodo, salvo poi mettere in evidenza tutti i limiti.
Una di queste è il cosmo, presentato come un'enorme sfera contenente tutte le materie, di diversa densità, che costituiscono i piani di esistenza coesistenti senza possibilità di interferenze dannose, in un ambiente in qualche modo oggettivo.  Questa immagine serve molto bene a farci capire la coesistenza dei piani di esistenza, per farci capire come il grossolano stia bene, possa compenetrarsi con il sottile, e come i piani di esistenza non siano differenti ubicazioni spaziali, ma semmai, appunto, diverse identità materiali comprendenti tutte le forme di vita che sono proprie alle singole densità.


Tuttavia questa immagine non rende tutta la verità, anche se può sembrarlo. Se voi domandaste ad un'entità del piano astrale, che stesse ascoltando questa sera, dov'è, essa vi direbbe che è qui fra voi, in un dato punto della stanza, confermando, in qualche modo, con la sua asserzione, l'esistenza di uno spazio oggettivo, contenente, in tutti i punti della sua estensione, i diversi piani di esistenza.




Io vorrei, invece, farvi capire che se un'entità, rivestita di un corpo astrale, vi potesse vedere, ciò non sarebbe dovuto al fatto che divide il vostro spazio e quindi, potendo percepire il più sottile, necessariamente dovrebbe percepire il più grossolano, ma per un'altra ragione.  Infatti se voi, abitanti del piano fisico, aveste la possibilità di vedere a livello più sottile (poniamo il livello atomico) voi non vedreste più gli oggetti che vedete, ma vedreste unicamente un ammasso di atomi come un cielo stellato in una notte serena. E non basterebbe la diversa densità dello spazio, il diverso numero di atomi che costituiscono l'aria e gli atomi che costituiscono i corpi, a farvi percepire gli oggetti.   ......
Immaginate poi la visione nel piano astrale.  Con tutto questo intendo dire che se un'entità del piano astrale può percepire il piano fisico, non è, ripeto, perchè condivide lo stesso spazio, ma per un'altra ragione che, questa sera, non ci interessa esaminare.


Allora, questa immagine, di cui dicevo all'inizio, del cosmo come un'enorme sfera, se ha il pregio di farci capire che i piani di esistenza non sono tanti cicli o inferni danteschi, ha tuttavia il difetto di farci credere in uno spazio oggettivo.


Ora, noi abbiamo ricordato, questa sera, che qualcuno considera lo spazio come una sorta di emanazione della materia; ciò è molto se riesce a staccarsi dal concetto del vecchio spazio euclideo, quello della geometria o meccanica classica; ma non è abbastanza se, per capire che non esiste uno spazio vuoto, noi pensiamo a uno spazio tutto pieno di materia.




Allora vogliamo servirci di un'altra immagine di comodo, un altro esempio.
Supponiamo che voi siate in un ambiente lontano da questo, completamente al buio, e che siate collegati con questo ambiente -in quel momento perfettamente illuminato- con una macchina modernissima che riproduca, attorno a voi, in tre dimensioni, questa stanza.  Dopo qualche tempo voi avrete la netta sensazione di trovarvi qui, esattamente nel punto dove sarebbe collocato l'elemento sensibile per riprendere la scena.
Ancora una volta i vostri sensi vi avrebbero tratto in inganno; un inganno irrilevante nei rapporti fra voi e i presenti in questa stanza; ma un inganno che occorrerebbe svelare ed esattamente dimensionare nel momento in cui noi volessimo comprendere la realtà di ciò che è.
.........................
 
ESAME DELLA "PRIMA CAUSA"
... La causa del tutto, cioè la "prima causa" deve essere indipendente dal tutto. Non deve dipendere da alcunchè, cioè deve essere la prima causa increata. Altrimenti dovrei spostare il mio esame fino a trovare la causa esistita da sempre.
Ora, poichè siamo al di fuori del tempo e dello spazio, mi pare opportuna una precisazione, cioè sostituire l'avverbio di tempo "sempre" con un vocabolo più adatto, e questo è "eternamente", perchè nel linguaggio comune si confonde il significato di "eterno" con quello di "perpetuo" e di "perenne".  Noi intendiamo "eterno" senza tempo; mentre "perpetuo" è qualcosa che ha avuto un inizio e che continua in un supposto tempo senza fine; "perenne" che non si esaurisce mai.




Dunque la prima causa è "eterna".
Se è eterna, cioè senza tempo, è immutabile; perchè se mutasse avrebbe, in qualche modo, una successione.  Poi deve essere assoluta, cioè indipendente da tutto, altrimenti, come ho detto, non sarebbe prima causa.
Se è eterna, immutabile, assoluta, non si scappa, deve essere "una".  Se è "una", tutto quanto esiste, occupa tutto quanto esiste; allora è illimitata. 
Se è illimitata vuol dire che niente la limita e quindi posso affiancare a questo concetto, l'altro concetto: è infinita.  Se è infinita non esiste un punto ove essa non sia, quindi è onnipresente, e poichè è eterna, è "l'eterna onnipresenza".
Se allora è eterna, immutabile, assoluta, illimitata, infinita, onnipresente e se confronto i caratteri di questa "prima causa" con quelli universalmente riconosciuti, dalle filosofie e dalle religioni, a Dio, vedo che posso chiamare, questa mia "prima causa", Dio.
Se è onnipresente, è a contatto col tutto; niente, quindi, può esserle ignoto; allora è onnisciente.




Ora, se guardo con quanto ordine e intelligenza si svolge la vita naturale del creato, non posso non credere che altrettanto ordine ed equilibrio non sia in ciò che ne è stato la causa.  Per cui questa "prima causa" o Dio, deve necessariamente essere, perlomeno, tanto intelligente, e quindi sapiente, della totalità di ciò che ha generato.
E proprio il "generato" mi conduce a fare un'altra constatazione, e cioè che non posso pensare che tutto quanto esiste sia stato tratto dal nulla, ma che l'unica conclusione alla quale posso logicamente pervenire, è che Dio l'abbia tratto da se stesso, cioè che sia stato emanato.


Non solo, ma non posso pensare all'emanato come a qualcosa staccato da dio, che ne viva autonomamente, senza negare a Dio il suo carattere assoluto; perciò l'emanato deve rimanere in Dio.
E se è così, non posso pensare a Dio, completo dell'emanazione e a Dio privo della sua emanazione, come a due momenti diversi della sua esistenza, perchè negherei a Dio il suo carattere immutabile ed eterno.
Perciò l'emanato non solo deve restare in Dio, ma deve esservi sempre stato.
Se, allora, causa e causato sono una realtà unica, quell'inizio e quella fine che ho ricercato e ritrovato nell'esistente, non sono eventi oggettivi, sono illusioni, sono apparenze.




Allora quanto noi percepiamo non è la realtà; è l'apparenza di essa. Sono congetture che la nostra mente costruisce su informazioni che le pervengono dai sensi, ma non è la realtà di ciò che è.
La realtà è ciò che è, e non ciò che i nostri sensi ci fanno ritenere che sia.


Allora com'è conciliabile questa apparenza con una realtà diversa?
Certo deve esserci un modo comprensibile che concili questi due aspetti del problema, ed è proprio da questa spiegazione che devono scaturire i valori antropologici, e non il contrario.  Cioè  errato sarebbe, da valori umani, immaginare la realtà di Dio e su quello creare un'etica. E mi pare che proprio questo errore sia stato fatto.  Cioè partendo da ciò che i nostri sensi ci fanno ritenere realtà, gli uomini abbiano tratto tutte quelle concezioni del divino che ne fanno un essere antropomorfico, se non nell'aspetto, per lo meno nel comportamento.  Invece mi pare più proprio pensare che Egli sia la causa di tutto, come io ho postulato, ma ne ho dedotto che "causa" e "causato" debbono essere un'unica realtà.
Oppure lo posso immaginare come un ordinatore di un caos preesistente, ma ne ho dedotto che se fosse realmente così, ciò contrasterebbe con la sua natura immutabile ed eterna.
O lo posso immaginare come essere da cui traggono origine tutti gli altri esseri; ma se fosse realmente così, ciò contrasterebbe con la Sua natura infinita e indivisibile.


Allora cosa significa?
Significa che io posso immaginare Dio come più mi aggrada, come più mi fa piacere, ma per essere veramente tale, Egli non può che essere l'unica verità, l'unica realtà, perchè solo così Egli è immutabile, infinito, indivisibile, eterno, perfetto, completo, onnipresente, onnisciente, assoluto.
Questo è il Dio al quale posso credere senza far torto alla mia ragione."
 
 
DIVENIRE ED ESSERE
Il cosmo esiste in Dio in tutte le sue fasi di manifestazione, dall'inizio alla fine nell'eternità del non tempo; perchè, ripeto, un divenire che duri un tempo perpetuo, cioè che abbia avuto un inizio e non abbia una fine, è doppiamente impossibile: primo, un tempo senza fine non può esistere; secondo, perchè in ogni caso dovrebbe trattarsi di un reale divenire, che è inconciliabile con l'immutabilità di Dio.     .........
L'uomo deve sentirsi un "essere", non un "divenire". 


Voi pensate alle fasi successive della vostra esistenza come a delle promozioni in carriera, come un impiegato può passare e diventare capoufficio o direttore cambiando le sue mansioni, ma non il suo "essere".
Non si raggiunge mai un nuovo essere, col divenire.  L'essere è del "sentire", della coscienza; il divenire è del corpo mentale.
Voi potreste conoscere tutte le cose che conosce un Maestro, ma solo questo non vi renderebbe tali.


Solo il "sentire" appartiene alla realtà dell'essere". Così quando osserviamo un'esistenza nelle sue fasi, comprese dal selvaggio al superuomo, noi non osserviamo un selvaggio che "diviene", ma osserviamo le molteplici fasi di esistenza, cioè di "essere" di quella individualità, e poiché le fasi si susseguono dal più semplice al più complesso, voi dite che l'individuo evolve.   Noi pure lo diciamo, le parole sono le stesse, ma ciò che vogliono significare è profondamente differente.




Questo sarebbe meraviglioso in politica, ma siccome noi politici non siamo, quando parliamo vogliamo significare qualcosa; così quando diciamo che l'individuo "evolve", non intendiamo dire che l'individuo "diviene".  Un'esistenza individuale è già tutta completa in sè; niente può aggiungersi ad essa.  Così "evolvere" non può significare "crescere", ma può voler dire solo che i differenti "sentire" di quella individualità, si manifestano, vivono l'attimo eterno dell'esistenza.


Ciò è incomprensibile se si crede che l'Emanato si sviluppi in un tempo oggettivo, staccato da Dio, vivente una realtà senza tempo.
Ecco l'errore fondamentale che ha afflitto le teologie di tutti i tempi e di tutti i popoli. L'Emanato fa parte integrante di Dio, la sua esistenza fa parte dell'esistenza di Dio. Ecco perchè non vi può essere un reale divenire nell'Emanato.


Comprendo la vostra difficoltà ad afferrare questi concetti. Il mondo che voi osservate è un mondo che sembra in continuo divenire; la realtà che cade sotto i vostri occhi, vi pare una realtà che continuamente divenga, certo, ma dovete tenere presente che questo è quello che appare, non quello che è.


Ecco quello che andiamo ripetendovi da tempo: "La verità non è che voi osservate un mondo che diviene, ma è che voi avete una visione dinamica di un mondo statico. Non è la piante che cresce, che continuamente diviene, ma siete voi che ne osservate, in successione, le fasi di esistenza, voi che credete che le fasi già osservate non esistano più. Errore! Esistono nella eternità del non tempo."
Vedete, abbiamo cercato di farvi capire che la realtà è tutta diversa dall'apparenza, che il mondo che cade sotto i vostri occhi, è un mondo immobile, statico. Cerchiamo di farvi capire che la realtà non è "una" che diviene, ma costituita da "molte" che "sono".




"Allora", direte voi. "Dove nasce il movimento?"
L'illusione del movimento è originata dalla natura del "sentire individuale"; ma, per comprendere ciò, dobbiamo renderci conto, una volta per tutte, che noi non siamo "creati" nel senso generalmente accettato, cioè che Dio ci abbia tratti da se stesso a un dato punto o momento della Sua esistenza senza tempo. Credere a questo, è quanto meno singolare se si riconoscono a Dio i caratteri di assoluto, infinito, eterno, immutabile. Dunque noi esistiamo in Lui in eterno e possiamo considerarci suoi figli solo nel senso che facciamo parte di Lui, della Sua natura, che siamo conseguenza della Sua esistenza.
Solo in questo noi discendiamo da Lui.
Egli è la Realtà Assoluta. Egli è. Egli "sente". Egli è "sentire assoluto".


Che cos'è lo spirito?   E' l'essenza del tutto; è l'essere del tutto; è l'esistere del tutto; è il sentire del tutto; il sentire assoluto inteso come sentire dell'insieme comprendente il sentire delle parti.  Noi siamo il sentire delle parti, che è un sentire relativo e molteplice.
Il sentire della parti nasce dall'illusorio frazionamento dell'Uno Assoluto nei molti.
Perchè illusorio?   Se questo frazionamento fosse reale, il tutto non potrebbe esistere come Dio, allo stesso modo che un oceano, considerabile come un insieme di gocce, non esisterebbe più, come oceano, nel momento che in queste realmente lo si trasformasse.
D'altra parte se non esistesse la molteplicità, il Sentire Assoluto non sarebbe tale, ma sarebbe un sentire unico e solo monolito.


Ma come potrebbe mantenersi l'unità di Dio, in questa molteplicità, se ogni sentire, dal più semplice al più complesso, non fosse unito all'altro?  E come potrebbe realizzarsi questa unione, questa continuità, se non col fatto che il sentire più complesso contiene il sentire più semplice?
Serie di sentire, dal più semplice al più complesso, sono le individualità. Ma poichè il sentire più complesso contiene il più semplice, nell'individuo, inteso come momento di questa serie, cioè noi quali ci sentiamo, nasce l'illusione di provenire "da", di tendere "a", cioè l'illusione dello scorrere.  Ma poichè il sentire più complesso è il Sentire Assoluto, che riassume e comprende in sè ogni sentire fino ai più semplici, questa illusione sfocia nella realtà di Dio.




Noi, quali ci sentiamo, quali crediamo di essere, esistiamo solo nell'illusione della separatività.
In realtà esiste solo Lui. Ma poichè Lui è Sentire Assoluto, che comprende e riassume in sè ogni sentire, ciò garantisce che la nostra esistenza non finisce col finire dell'illusione.


Ripeto: il fatto che il sentire più complesso comprenda il più semplice, genera nell'individuo l'illusione di provenire "da" e di tendere "a", e quindi l'illusione del divenire; ma è lo stesso fatto che realizza l'unità del tutto unendo, come un filo, tante perle in collane; sentire elementari, corrispondenti a sensibilità di piante ed animali, a sentire più complessi, corrispondenti a visioni limitate e circoscritte della realtà, come sono nell'uomo; e poi a sentire sempre più complessi, corrispondenti a visioni sempre più ampie, e poi a "comunioni" sempre più estese, fin'oltre l'ultimo scorrere, l'ultima separazione: l'identificazione in Dio.
Come il selvaggio non diviene santo, ma l'uno e l'altro fanno parte di una stessa individualità, così noi, quali ci sentiamo, quali crediamo di essere, non comprenderemo mai Dio, ma facciamo parte di una esistenza che in Lui si identifica.
..............


Come spiegare più chiaramente ciò, Padre? Questo Tuo essere tutti noi che ci conduce a riconoscerci in Te? Come dirlo se nel momento che Ti chiamo o quando Ti penso, non chiamo Te, non penso a Te, perchè Tu non sei quello che riesco a pensare?
Le parole non servono perchè appartengono ad un mondo che si fonda su ciò che sembra; e Tu sei!
La nostra mente ci fa credere ad un io separato e Tu sei un Tutto-Uno-Assoluto. Il nostro sentimento ci assoggetta all'illusione del trascorrere, e Tu sei la realtà che non conosce sequenza.
Come avvicinarci a questa realtà, se non abbiamo il coraggio di rinunciare a credere che l'io sopravvive?
Noi, quali ci sentiamo, non siamo immortali; la nostra consapevolezza finisce per lasciare posto ad un'altra più grande consapevolezza; fino a che sentiamo che Tu solo esisti, che Tu solo sei la realtà.
Ma neppure questo è l'ultimo sentire; è l'ultimo dell'illusione. Oltre è l'eterna realtà del Tuo essere, di fronte alla quale solo il silenzio è giusta voce."








KEMPIS















LA VITA..........


di GIOVANNI BORTOLI






“.... tu avrai capito la vita non quando tu farai il tuo dovere in mezzo
 agli uomini, ma quando lo farai nella solitudine.

Non quando, pur raggiunta la notorietà, potrai avere una condotta
esemplare agli occhi degli uomini, ma quando l'avrai e nessuno lo saprà, neppure te stesso.

Non quando tu farai il bene e ne vedrai gli effetti, ma quando lo farai e
non ti interesserà avere gratitudine, nè conoscere l'esito del tuo operato.

Non quando tu potrai aiutare efficacemente e disinteressatamente, ma
quando aiuterai pur sapendo che il tuo aiuto a nessuno serve, neppure
a te stesso.

Non quando tu ti sentirai responsabile di tutto ciò che fanno i tuoi simili, ma quando conserverai intatto il senso della tua responsabilità, pur sapendo d'essere l'unico uomo al mondo.
Non quando tu avrai compreso che tutti gli esseri hanno gli stessi tuoi
diritti, ma quando tratterai l’essere più umile della terra come se fosse
Colui che ha nelle Sue mani le tue sorti.

Non quando tu amerai i tuoi simili, ma quando tu stesso sarai i tuoi simili e l'amore




























di GIOVANNI BORTOLI




Essendo il Cerchio solo una figura ideale, non ha nessun proposito né azione a livello collettivo. Quello che ciascuno si sente di fare lo fa a titolo personale, e se ne assume tutta la responsabilità.
Non esiste volontà di fare proseliti o di imporre le proprie opinioni e convinzioni. I Maestri stessi si rivolgono solo a chi cerca perché non è soddisfatto di ciò che sa dalla scienza, dalla filosofia, dalla religione. Essi sono portatori di una concezione e visione della Realtà che risponde a tutte le domande che, non trovando altrove risposta, creano angoscia e smarrimento; ma non hanno alcun proposito di diffondere né tanto meno imporre tale concezione.
La diffusione che è avvenuta e può avvenire è spontanea, non provocata; avviene grazie al consenso liberamente manifestato di chi è venuto a conoscenza dell'insegnamento attraverso alla lettura dei libri pubblicati.  







Essendo il Cerchio solo una figura ideale, non ha nessun proposito né azione a livello collettivo. Quello che ciascuno si sente di fare lo fa a titolo personale, e se ne assume tutta la responsabilità.


Non esiste volontà di fare proseliti o di imporre le proprie opinioni e convinzioni. I Maestri stessi si rivolgono solo a chi cerca perché non è soddisfatto di ciò che sa dalla scienza, dalla filosofia, dalla religione. Essi sono portatori di una concezione e visione della Realtà che risponde a tutte le domande che, non trovando altrove risposta, creano angoscia e smarrimento; ma non hanno alcun proposito di diffondere né tanto meno imporre tale concezione.


La diffusione che è avvenuta e può avvenire è spontanea, non provocata; avviene grazie al consenso liberamente manifestato di chi è venuto a conoscenza dell'insegnamento attraverso alla lettura dei libri pubblicati.







Isaac Newton e la sistemazione della fisica classica

di GIOVANNI BORTOLI





Grazie alle numerose scoperte di Isaac Newton, dalla legge di gravitazione universale a diverse ricerche sulla luce e le sue proprietà di scomposizione, la fisica classica ottiene una sua prima sistemazione nell'ambito delle trasformazioni scientifiche che avvengono tra '800 e '900.
Di queste scoperte parleremo più avanti. 
Oggi concentriamo la nostra attenzione sul metodo di ricerca, o meglio, sulle regole di ricerca che Newton, da grande matematico qual'era, chiamò reagulae philosophandi.
Ecco un breve riassunto di queste regole:

  1. Un fenomeno deve essere studiato solo con quelle cause che bastano a spiegarlo.
  2. Gli effetti uguali devono essere riferiti a una stessa causa. Per esempio, la luce del sole e quella di una candela di propagano allo stesso modo.
  3. Gli esperimenti sulle qualità di alcuni corpi possono essere estese anche ad altri corpi. Per esempio, la durezza è una proprietà dei corpi.
  4. Una proposizione è valida fino a quando non si trova un esperimento che la fa decadere.
L'opera di Newton a fondamento della fisica classica, detta altrirmenti Meccanica, si intitola Philosophiae naturalis principia mathematica (Filosofia naturale dei principi matematici). Da quest'opera comprendiamo la grande attenzione dello studioso non solo per la forza, in particolare quella di gravità, ma anche per il movimento e per i concetti di tempo e spazio.
Relativamente al tempo e allo spazio egli fece delle distinzioni importanti, indicando:
  1. Lo spazio relativo, che indica tutto ciò che cade sotto la nostra esperienza;
  2. Lo spazio assoluto, che rimane sempre fisso e immobile;
  3. Il tempo relativo, cioè quello che si esprime con le unità di misura (ora, mese, anno);
  4. Il tempo assoluto,  che fluisce in maniera uniforme ed è quello che chiamiamo comunemente "durata".
Come ben sappiamo, Einstein avrebbe in seguito rivoluzionato la fisica classica criticando i concetti di spazio e tempo assoluti. Ma questa è un'altra storia...






domenica 27 novembre 2011


 
 
 
 

Non è raro che i problemi di filosofia possano sembrare, ai non addetti ai lavori, sterili elucubrazioni mentali, trastullamenti teorici che non servono a niente e a nessuno.
Riportare all'attualità le questioni filosofiche fondamentali è un problema che non tutti i filosofi di professione si pongono. Così un problema come quello del cognitivismo etico, e cioè il domandarsi se possa esistere o meno un'etica riconosciuta necessariamente e universalmente, può apparire come qualcosa di futile quando c'è ad esempio chi è costretto ad occupare scuole in disuso perché non ha i soldi per pagarsi una casa o quant'altro sia necessario per vivere.

Eppure, in un momento di crisi mondiale come quello che ci troviamo a vivere in quest'epoca storica, la domanda su cosa sia giusto e cosa sia sbagliato non sembra certo essere priva di attualità.
La crisi delle strutture economiche e politiche porta spesso anche al crollo dell'apparato culturale e ideologico che su di esse si fondava. Che si sia o meno d'accordo col pensiero marxiano, è un fatto che molte delle regole sociali che seguiamo derivano direttamente dall'apparato economico-politico su cui si fonda il paese in cui viviamo. Inevitabile quindi, quando tutto sembra sgretolarsi, una crisi dei valori.  
Così ci si trova di fronte, ad esempio, alla necessità di giudicare le violenze di piazza. Certo, si può nascondere la testa sotto la sabbia e raccontarsi che essa è frutto di pochi balordi amanti della ferocia e della prepotenza. Ma se ci si imbatte con estrema facilità in qualcuno che cerca di spiegarti la necessità della rivoluzione violenta, cominci a pensare che sia necessario un ripensamento dei valori su cui fino al giorno prima si fondava tutta la tua esistenza.
Si ripropone allora con maggior vigore quella domanda che può sembrare un vano esercizio intellettuale in momenti di maggiore tranquillità: è possibile creare un sistema di valori che sia universale e necessario? Un sistema di regole sociali stabile, in grado di resistere alle evoluzioni storiche e culturali? Un'etica scientifica, che fondi le sue massime su verità inattaccabili, eterne e immutabili?

Riconosco che la questione in un’epoca in cui si impone sempre di più il multiculturalismo, e con esso la necessità di far convivere insieme sistemi di valori differenti, rispettando tutte le forme di pensiero -, può sembrare anacronistica.
Tuttavia, se è vero che, fino a quando due sistemi di valori non entrano in contrasto tra di loro, la  convivenza può avvenire in maniera pacifica senza che sussistano discussioni su chi abbia ragione o torto, molto più problematico è il caso in cui tali sistemi si trovino in radicale disaccordo su questioni cruciali riguardanti il benessere fisico e psicologico della società che si trovano a condividere.


A metà del Novecento  la degenerazione prima economica e poi politica della Germania, portò a far credere a moltissimi tedeschi che fosse “legittimo”, e addirittura “giusto” uccidere milioni di persone solo sulla base della loro provenienza razziale.
Non voglio in nessun modo paragonare questo momento storico con quello, né penso che si possa giungere alle medesime tragiche conclusioni, ma voglio mettere in evidenza una questione molto importante: il fatto che oggi la maggior parte di noi consideri quell'evento storico come un’aberrazione, come una violazione inaccettabile dei diritti umani, è dovuto al fatto che la maggior parte di noi condivide il principio secondo il quale tutti gli uomini nascono con pari dignità e diritti.
Ma tale principio, lungi dall'essere ovvio, è rigettato da molte culture che giudicano il valore di una vita umana in base a criteri completamente differenti da quelli dell'uomo occidentale medio.

Ecco quindi il cuore della questione: non esiste, O almeno non è stato ancora trovato, un principio fondamentale, che sia condivisibile da tutti gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo, sul quale poter fondare un sistema di valori fondamentali stabili.
Scrive Paolo Flores d'Arcais in un articolo comparso sull'Almanacco di Filosofia di
"Micromega"[1]: "La dimostrazione dell'esistenza di una legge morale naturale non può avvenire in modo circolare, sostenendo che chi non riconosca o condivida tale legge dimostri con ciò la sua aberrazione rispetto alla “natura umana”, manifesti il suo essere disumano: non possiamo presupporre come già dato cosa sia naturale o contro natura, umano e disumano visto che proprio questo è quanto dobbiamo dimostrare.” 
Non possiamo stabilire che cosa sia “disumano” se prima non ci accordiamo su cosa sia la “natura umana”; non possiamo dire che una norma, un comportamento siano giusti o sbagliati se prima non stabiliamo un criterio di giustizia. 
E se questo criterio c'è, ma è solo relativo alla cultura di riferimento, allora non potremmo mai definire nulla, nemmeno il burka o lo stupro, nemmeno l'olocausto, come assolutamente sbagliati e inaccettabili.
È
  questa una questione che domina la discussione filosofica fin dai suoi albori, basta pensare all'inesauribile disputa fra Platone e i sofisti. 
Qualcuno, nel corso dei secoli, si è rassegnato alla non reperibilità di un principio universale su cui fondare l'etica, e quindi ha accettato la conclusione relativista per cui un'azione è giusta o sbagliata solo in base al sistema di valori a cui fa riferimento, come appunto sosteneva il sofista Protagora. 

Forse avrete già intuito che chi scrive è invece convinta che tale principio debba sussistere, e che uno dei doveri principali della ricerca filosofica presente e futura debba essere proprio quello di stabilire se esso esista o meno e, se esiste, concentrare tutti gli sforzi nel definirlo in maniera chiara e comprensibile a tutti. 
Contrariamente a quanto pensano molti intellettuali contemporanei, non è l'imposizione di un dogma etico che genera totalitarismi, e conseguenti tragedie umane, ma è proprio il sancire l'equivalenza di tutti i valori che apre la strada all'affermazione di principi che seguono la semplice legge del più forte, sia questa forza fisica, dialettica, economica o politica.
La libertà, sebbene in una certa misura sia sacrosanta, è innanzitutto possibilità di sbagliare. E non è un caso forse che proprio questa parola dal suono tanto nobile sia stata la bandiera di un partito che ha devastato l'Italia negli ultimi anni. 

Mi rendo conto che l'idea di un principio di giustizia che sia inattaccabile possa sembrare un concetto retrogrado e possa perplimere più di qualcuno, proprio perché sembra mettere in pericolo la convivenza di culture diverse, ma in realtà è esattamente il contrario. Soltanto stabilendo alcuni punti fondamentali che nessuno può mai permettersi di scavalcare è possibile una civile convivenza tra miliardi di persone che hanno idee, origini e convinzioni diversissime tra di loro.
Perché sussista un tale principio esso dovrebbe avere il carattere dell'evidenza. 
Non si tratta di trovare una norma che metta d'accordo tutti, accettata convenzionalmente, ma di una verità inattaccabile a cui ciascuno deve necessariamente dare il proprio assenso. Non si è d'accordo con la legge di gravità, ma tutti sono “costretti” a riconoscere la sua validità. 
Il principio su cui dovrebbe fondarsi l'etica universale dovrebbe avere quindi lo stesso carattere di scientificità della legge di gravità. 
Per fare questo è quindi necessario che la filosofia si affianchi a discipline rigorose come la medicina, la biologia e l'antropologia, che studiano l'uomo da un punto di vista scientifico; che la smetta di farneticare e perdersi in discussioni autoreferenziali che nascono e muoiono nelle aule universitarie.  Essa deve tornare in mezzo agli uomini, affiancarli e costituire un sistema di riferimento indubitabile in cui il sentimento di indignazione diventa un dovere politico e morale, in cui è necessario lottare per diritti che, pur apparendo fondamentali, sembrano poter essere messi in discussione in ogni momento e senza possibilità di appello.



sabato 26 novembre 2011











  INTRODUZIONE A «SO QUEL CHE FAI», 




  Il Linguaggio, tra Innatismo ed Empirismo


Inserito nella sezione Filosofia un interessante articolo di Cinzia Ruggeri: Il Linguaggio, tra Innatismo ed Empirismo.
Ecco un breve abstract fornitoci dall'autrice: La teoria innatistica sull’avvento delle facoltà linguistiche viene qui criticata avvalendosi della dialettica potenza/atto e di tesi wittgensteiniane tratte dalle “ricerche filosofiche” che permettono di affrontare il problema linguistico mediante un approccio empiristico e storicistico, non escludendo tuttavia totalmente l’innatismo e giungendo così ad una onesta riflessione circa la genesi, l’uso e l’apprendimento del linguaggio.
Buona lettura!


  DONNIE DARKO E LA FILOSOFIA DEI VIAGGI NEL TEMPO


Marco Apolloni ci presenta un suggestivo articolo che sottopone le tematiche del film Donnie Darko al microscopio della meccanica quantistica e della filosofia contemporanea.

 


  RICCARDO DRI - LE DODICI MALATTIE DEL CIELO


E' stata inserita nella sezione Biblioconsigli una scheda del libro di Riccardo Dri dal titolo "Le dodici malattie del cielo", edizioni Sovera. Nella scheda è l'introduzione al volume che ci ha fornito l'autore; si rimanda al suo sito per le informazioni in merito all'acquisto.



FREUD: TEMI E SVILUPPI ESTETICI


Inserita, nella sezione Filosofia/Estetica, la relazione di Jacopo Agnesina (sicché mia!) dal titolo «Freud: temi e sviluppi estetici». In essa si vuole mostrare l'apertura freudiana ai temi estetici: partendo dai testi di Freud è possibile tracciare alcune direttive che guidano attraverso la complessità-coerente di queste concezioni. In chiusura si tracciano alcuni sviluppi che psicoanalisti di questo secolo hanno apportato all'originale pensiero freudiano.

 


  HOBBES O DELL'ANORMALITA'


Pubblichiamo l'interessante contributo di Gianfranco Cordì dal titolo «Hobbes o dell'anormalità» nel quale viene analizzata la specificità del pensiero del filosofo inglese, alla luce dei continui riferimento alla "paura" che si materializza sotto le sembianze regolatrici del mitico Leviatano. Hobbes «tratteggia quella che è una condizione umana tutta incentrata su di un punto preciso: l’assenza, in ogni caso, della cosiddetta normalità». L'interessante scritto è raggiungibile dalla sezione Filosofia/Filosofia del '600
  IL FILOSOFO CHI è?

il filosofo forse è, proprio un filosofo, perchè dubita del suo sapere e studia nei pensieri altri, miscelandoli con il proprio pensiero, per studiare e scoprire altri pensieri dalla sua curiosità di sapere altre conoscenze. il filosofo è come un moto perpetuo nel suo fare, perché sa di non sapere e ricerca saperi, fino al proprio impedimento. quando si ferma non è più un filosofo. Ma è stato filosofo. ciao da guido

  RE: IL PRINCIPIO DI NON IDENTITA E DI CONTRADDIZIONE


Facendo un approfondimento su Platone, e leggendo "Platone e l'uso del sapere a vantaggio dell'uomo", ho trovato questa definizione da lui espressa sul problema del "nulla" "Quando sosteniamo che A non è B, non intendiamo alludere al niente assoluto, che per l'appunto non esiste, ma soltanto a ciò che è diverso dall'essere, ossia al niente relativo. In altre parole l'unico modo in cui può esistere il non-essere è il diverso, che però in quanto tale, non è il nulla assoluto, <<partecipando>> a...



  IL PRINCIPIO DI NON IDENTITA E DI CONTRADDIZIONE

La posizione di A e gia la sua negazione non A quindi B ma gia la posizione di B e la sua negazione non B quindi A ma gia la posizione di A e la sua negazione non A quindi B ma gia la posizione di B e la sua negazione non B quindi A questa successione è infinita non esiste più la distinzione...... 














                  

mercoledì 23 novembre 2011




LE DODICI COSE DA FARE.




  1. STARE DA SOLI- Tutti i giorni, ritagliamoci venti minuti mettiamoci in una stanza, a occhi chiusi.Facciamo il vuoto dentro di noi e prendiamo consapevolezza di noi stessi.
  2. EVITARE LE DEFINIZIONI- Non diamo mai definizioni nè di noi nè degli altri. Comunichiamo in modo più spontaneo, senza preoccuparci di non piacere a qualcuno.
  3. RIDERE DI PIU'- La risata crea una cascata di ormoni che ci fanno stare bene e rinnova le cellule nervose.
  4. SCEGLIERE LA CEDEVOLEZZA- Non opponiamo resistenze, lasciamo che le cose accadono. Il cervello sa già dove portarci.
  5. BUTTARE I FARMACI- Eliminiamo gli psicofarmaci: frenano l'energia vitale e ci spengono.
  6. FARE L'AMORE PIU' SPESSO- L'eros scalda e rinnova le cellule cerebrali, che restano giovani più a lungo.
  7. STANCARSI SINO IN FONDO- Solo esaurendo le forze completamente possiamo trovarne di fresche.
  8. FARE COSE CREATIVE- La creatività mantiene " oliato" e lubrificato il tessuto nervoso.
  9. SFIDARE L'IGNOTO- Bando ai timori. L'ignoto è ricco di possibilità di sperimentare e perciò potenzia il cervello.
  10. CERCARE LA MAGIA- Facciamo le cose senza sforzo. Se ci costano fatica, chiediamoci se fanno per noi.
  11. TROVARE IL PROPRIO TALENTO- Facciamo quello che ci suggerisce l'istinto, presenti a noi stessi nell'azione.
  12. VACANZA SOLO PER DIVERTIRSI- Evitiamo le vacanze forzate, quelle in cui sappiamo già ci annoieremo. Scegliamo posti e compagnie nuove, altrimenti il nostro sistema nervoso torna più provato di quando siamo partiti.


martedì 22 novembre 2011



Filosofia


Questa è semplice ed è anche l’ultima della lista, poi ci tiriamo un gran segno sopra e lunedì proviamo l’esame in aula “M” dalle otto e zero zero ad oltranza emotiva fino ad un massimo di due ore e trenta spaccate. Che ricordi! Ero più giovane, più giovani le mie coetanee, più capelli sulla mia testa, e Deva era ancora nei pensieri del Demiurgo o chi per lui… Poi ci sono cose più complesse, come la logica del secondo ordine, e anche altre cose come uscire con gli amici, portare a spasso il cane, bere dell’ottimo rosso veneto con una succulenta fiorentina. Mi sono reso conto della “magrezza” di alcuni post riguardo alla logica predicativa e li “incicciotterò” in occasione del secondo quaderno di logica di giovannibortoli-bafo10.blogspot.com magari portando più esempi.
Ma ora basta indugi, la regola d introduzione dell’identità, che chiameremo “I=”, permette l’introduzione dell’identità nella forma “q=q” per un qualsiasi termine “q” che può essere anche un teorema, il tutto senza bisogno di nessuna assunzione. In effetti mi hanno sempre detto che l’identità dovrebbe essere una legge logica autoevidente, vallo a dire a Hegel!
Vediamo ora alcune proprietà della relazione d’identità, innanzitutto essa è una relazione riflessiva, perciò:

ᅡ∀x (x=x)
(1)            x=x                       I=
(2)           ∀x (x=x)             1, I∀

Questo semplicissimo teorema ci dice che ogni cosa è uguale a se stessa.  L’applicazione di “I∀” è legittima perché la formula “x=x” non dipendendo da nessuna assunzione, non dipende da assunzioni in cui “x” è libera.
La relazione di identità è poi simmetrica:

ᅡ t=s → s=t
Applichiamo in questa dimostrazione la regola “E=” utilizzando come “α[x]” la formula “x=t”.
(1)       1            t=s                          Ass
(2)                     t=t                           I=
(3)       1            s=t                          1, 2, E=
(4)                     t=s → s=t              1, 3, I→

Inoltre la relazione di identità è anche transitiva:
ᅡ t=s ⋀ s=r → t=r
In questo caso la regola “E=” si applica utilizzando in luogo di “α[x]” la formula “x=r”.
(1)          1            t=s ⋀ s=r                      Ass
(2)          1            t=s                                 1, E⋀
(3)          1            s=r                                 1, E⋀
(4)          1            t=r                                 2, 3, E=
(5)                        t=s ⋀ s=r → t=r        1, 4, I→

Inoltre si dice anche, simpaticamente, che l’identità è euclidea, cioè tale che due cose identiche a una terza sono anche identiche fra loro:
ᅡ t=r ⋀ s=r → t=s
Siate felici




Filosofia



Allegria! Il transito dal vecchio al nuovo host ha simpaticamente cancellato il mio precedente post su Aristotele. E per la serie quando si dice: “ah! la sinergia!”, nel contempo anche il mio computer ha deciso che il file su Aristotele, che avevo salvato, si rovinasse risultando non apribile. Sono riuscito a recuperare l’incipit, quindi ripartiamo da qui…

(nell’immagine la famosa “Scuola di Atene” di Raffaello, a sinistra nel cerchietto rosso il vecchio Platone indica il cielo: il mondo delle idee; a destra Aristotele indica la terra cioè una filosofia razionale, scientifica diremmo oggi; secondo una celebre interpretazione storica)
Vorrei parlarvi di un opera che si chiama “Metafisica”, scritta da un certo Aristotele, alcuni anni, secoli, millenni orsono. Aristnotlechi? Aristotele. Che dire di lui, è già morto da un po’! Ma in noi filosofi il suo ricordo rimane ancora ben vivo, tanto che la sua eredità è essudata nelle profondità del nostro senso comune che vi è pesantemente impregnato e oggi praticamente tutti hanno almeno sentito nominare questo nome (altrimenti siamo qui per questo!). Aristotele nasce a Stagira città della Grecia settentrionale e attuale Stavro, nel 384 a.C. Suo padre era medico e quindi Aristotele nacque molto probabilmente in una condizione di agiatezza. Rimase orfano molto giovane di entrambi i genitori e venne accudito da un parente del padre. Quando Aristotele compì diciassette anni fu inviato ad Atene presso l’Accademia di Platone per ricevere una istruzione prestigiosa, era il 367 a.C. L’Accademia di Platone era strutturata affinchè agli allievi venisse insegnato tutto quanto fosse utile al filosofo come massimo esponente della saggezza pratica, se dobbiamo guardare al Platone della Repubblica, il filosofo doveva essere teoricamente in grado di prendere in mano, assieme ai suoi pari, le redini della Polis sotto ogni aspetto. Sulla soglia dell’Accademia si dice fosse scritto: “non entri qui chi non sa di matematica e geometria”. Aristotele probabilmente aveva acquisito l’interesse per la medicina e fisiologia dal padre aiutandolo osservandolo nella sua professione, studiò dalla matematica e dalla geometria fino a tutto ciò che la cultura greca poteva insegnare per vent’anni presso l’Accademia, fino alla morte di Platone. Un lungo apprendistato che termino intorno al 347 circa, quando alla morte del rettore dell’Accademia si aprirono le discussioni per la successione. Aristotele fu escluso come successore di Platone anche perché non essendo originario di Atene, secondo le leggi del tempo, non poteva possedere immobili nella città. Cominciò così a viaggiare e si recò prima ad Asso nell’Asia Minore dove gli fu possibile studiare assieme ad altri accademici ad opera di un mecenate; qui conobbe e sposò Pizia. Successivamente si recò a Mitilene nell’isola di Lesbo presso il suo amico Teofrasto. L’interesse di Aristotele per la conoscenza era molto forte, tanto da spingerlo a studiare ben oltre la conoscenza offertagli in quei vent’anni accanto all’amico Platone portandolo a svolgere nella sua vita studi di astronomia, fisica, antropologia, politica, etica, zoologia, botanica e chi più ne ha più ne metta! Ma il nostro era instancabile, sempre occupatissimo, non aveva mai dieci minuti per stendersi sull’amaca o andare a teatro. Infatti nel 343 a.C. fu chiamato da Filippo II di Macedonia come precettore del giovane figlioletto Alessandro. Aristotele andò così a Pella, capitale della Macedonia per istruire il futuro Alessandro Magno. Quando Filippo conquista Atene, Aristotele riesce a far sì che questa città abbia un trattamento mite. Nel 335 (o 334) Alessandro parte per la spedizione contro la Persia, Aristotele intanto è rimasto vedovo, al suo finaco ora si trova una giovane di nome Erpillide che si occupa di lui dalla morte della moglie, torna quindi torna ad Atene con l’intenzione di insegnare.
Non potendo possedere immobili il nostro inizia la sua attività in un cortile dedicato ad Apollo Liceo, la scuola di Aristotele da lì prende appunto il famoso nome di Liceo. A lui è particolarmente caro insegnare passeggiando, forse dialogando con gli studenti secondo il metodo della dialettica Platonica, questo gesto si ripete andando su è giù (o più propriamente girando in torno) nel portico del cortile dove insegna che si chiama perìpatos cioè “passeggiata”, i suoi studenti sono allora indicati come peripatetici. Qui Aristotele tiene corsi di logica, fisica, filosofia prima, etica, politica, retorica, poetica.
Nel 323, alla morte di Alessandro Magno in Persia, scoppiano ad Atene i mai sopiti livori contro i conquistatori macedoni e Aristotele, per i suoi trascorsi presso la corte di Filippo II viene accusato di empietà, nello specifico di aver divinizzato un uomo: Alessandro. Scappa così da Atene e si rifugia a Calcide, presso la casa di sua madre. Qui muore circa un anno dopo, nel 322 a. C.
OK, abbiamo rivisto ancora una volta la vita di Aristotele, la prossima volta vediamo le opere! I sentimenti e l’attualità dell’opera Aristotelica. Chi ha postato dei commenti, che purtroppo sono andati persi con l’articolo precedente, per favore li riposti, scusate i disguidi tecnici!
Per quanto riguarda la vita di Aristotele e le opere posso consigliarvi o il link di wikipedia.



sabato 19 novembre 2011





GRIGLIA RIASSUNTIVA SU HEGEL








(astratta esteriorità lo spazio, astratta interiorità il tempo).


esposizione sintetica


cenni biografici

Georg Wilhelm Friedrich Hegel nacque il 27 agosto 1770 a Stuttgart (Stoccarda), da famiglia protestante, "bene ordinata e agiata"; il padre era impiegato statale. Studiò al ginnasio di Stoccarda i classici greci e latini. Seguì i corsi di filosofia (2 anni) e teologia (3 anni) all'Università di Tubinga (1788-1793), dove si legò di amicizia con Schelling (con cui conndivise un giudizio fortemente critico verso l'ambiente accademico di Tubinga) e Hölderlin.
Si entusiasmò, in tali anni giovanili per la Rivoluzione e Napoleone. Gli avvenimenti della Rivoluzione francese suscitarono infatti in lui un grande entusiasmo ed esercitarono sul suo pensiero un'influenza duratura. Con gli amici di Tubinga, piantò un albero della libertà e fu tra essi l'oratore più acceso in difesa dei princìpi rivoluzionari della libertà e dell'eguaglianza.
Quando Napoleone entrò a Jena (il 13 ottobre 1806), Hegel scrisse in una lettera:
"Ho visto l'Imperatore - quest'anima del mondo - cavalcare attraverso la città per andare in ricognizione: è davvero un sentimento meraviglioso la vista di un tale individuo che, concentrato qui in un punto, seduto su di un cavallo, abbraccia il mondo e lo domina ".


Né questo entusiasmo diminuì quando Hegel ebbe dato la sua adesione allo Stato prussiano. Paragonava infatti, più tardi, la rivoluzione a un levarsi superbo di sole, un intenerimento sublime, un entusiasmo di spirito che han fatto tremare il mondo di emozione, come se solo in quel momento la riconciliazione del divino e del mondo si fosse compiuta". 
A Berna, Francoforte e Jena.
Terminati gli studi, Hegel fece, com'era d'uso, il precettore in case private e fu per qualche tempo a Berna (1793-1796). Al tempo del suo soggiorno a Berna appartengono i primi scritti, che rimasero inediti: una Vita di Gesù (1795) e un saggio Sulla relazione della religione razionale con la religione positiva (1795-1796). Dopo tre anni di soggiorno in Svizzera, Hegel tornò in Germania ed ebbe un posto di        precettore privato a Francoforte sul Meno (1797). Nel 1798-1799 Hegel compose alcuni scritti, tutti rimasti inediti, di natura teologica; nel 1800 il primo breve abbozzo del suo sistema che anch'esso rimase inedito. Frattanto essendogli morto il padre, che gli aveva lasciato un piccolo capitale, si recò a Jena, invitato da Schelling, e vi ottenne il posto di libero docente. Qui anche esordì pubblicamente con la Differenza dei sistemi di filosofia di Fichte e Schelling (1801). Nel frattempo, componeva e lasciava inediti altri scritti politici. Nel 1801 pubblicò la dissertazione De orbitis planetarum e nel 1802-1803 collaborò con Schelling al "Giornale critico della filosofia". Nel 1805 divenne professore a Jena e fu redattore capo di un giornale bavarese ispirato alla politica napoleonica.
A Norimberga
Nel 1808 divenne direttore del Ginnasio di Norimberga e rimase in questo ufficio fino al 1816. Hegel descrive come anni felici quelli di Norimberga: in tale periodo si sposò, e scrisse la Scienza della Logica
Heidelberg e Berlino
Nel 1816 fu nominato professore di filosofia a Heidelberg, dove pubblicò l'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio; e nel 1818 fu chiamato all'Università di Berlino. Cominciò allora il periodo del suo massimo successo. Hegel moriva a Berlino, forse di colera, il 14 novembre 1831."
(alcune notizie sopra riportate sono tratte e adattate dalla Storia della filosofia, di N.Abbagnano, vol.3).

opere

Gli scritti teologici giovanili

Gli scritti giovanili (composti tra il 1793 e il 1800) rimasero inediti e sono quasi tutti di natura teologica:
Religione nazionale e cristianesimo (Fragmente über Volksreligion und Christentum) (1794)Critica sia il Cristianesimo (contrapposto alla grecità, lieta, e a Socrate come fattore triste e desocializzante) sia Kant e la religione razionale da lui proposta: occorre invece una Volksreligion, che dia spazio al cuore e alla fantasia.
Vita di Gesù e La positività della religione cristiana (Die positivität der christlichen Religion)(1795)Gesù vi è presentato come un predicatore della Legge morale, che avrebbe dovuto fingersi il Messia, per comunicare il suo messaggio agli Ebrei, ottusamente legati all'idea di un Dio separato e ad una osservanza pedante di regole esteriori.
Lo spirito del cristianesimo e il suo destino (Der Geist des Christentums und sein Schicksal) (1798)In quest'opera mantiene il suo antigiudaismo, ma modifica il giudizio sul Cristianesimo, ora rivalutato. Alla grecità, momento di armonia "ingenua" e spontanea tra umano e divino, si contrappone il giudaismo, con la sua idea di un "Dio lontano", che impone norme gravose e incomprensibili, per cui l'uomo si trova ad essere schiavo di una oggettività a lui estranea: al Cristianesimo spetta la sintesi tra l'istanza della particolarità e dell'impulso immediato, affermato dalla grecità, e l''istanza della universalità della legge, presente nel giudaismo. L'amore è appunto tale sintesi: la legge universale diventa praticabile in quanto si incarna in una particolarità. Nel Cristianesimo tutto si concilia, anche il male, nella superiore unità del destino storico, che tutto giudica (morale inclusa).
Da notare il giudizio fortemente critico verso l'ebraismo, reo di avere introdotto una scissione: tra il popolo e Dio, tra le inclinazioni e la legge esterna, e tra il popolo ebraico stesso e gli altri popoli.


Altri scritti anteriori alla Fenomenologia

Inediti rimasero pure un primo abbozzo di Sistema, composto a Jena nel 1800: una Logica e metafisica, una Filosofia della natura e un Sistema della moralità. Dello stesso 1801 è la dissertazione per l'abilitazione alla libera docenza De orbitis planetarum. Con Schelling Hegel collaborò nei due anni successivi al "Giornale critico della filosofia".
Differenza dei sistemi di filosofia di Fichte e Schelling (1801)Primo scritto filosofico pubblicato da Hegel: in esso privilegia l'idealismo di Schelling che, in quanto è soggettivo ed oggettivo ad un tempo, gli appare come il vero e assoluto idealismo. In Fichte vi è ancora opposizione tra io e non-io, solo in Schelling si ha una              vera conciliazione degli opposti.
Fede e sapere (Glauben und wissen) (1802)Anche qui si schiera contro ogni dualismo,
tanto illuminista (che esalta il finito, ponendo l'Infinito come un al-di-là inconoscibile),
quanto kantiano, di Jacobi e di Fichte (che non superano l'opposizione finito/infinito, se non ricorrendo alla fede, mentre è la ragiione che può conciliare i due poli)
La Costituzione della Germania (1802)Tutto è già come dovrebbe essere. Nella fattispecie storica inutile inquietarsi per la sconfitta tedesca davanti a Napoleone. La stessa guerra è necessaria e salutare per uno stato.
Comunque la Germania è stata sconfitta per la sua disunione, e per l'individualismo in essa diffusosi: occorre invece una unità attorno allo Stato, visto come fine assoluto.
Sistema dell'eticità (1803)Hegel si pone il problema di come sorga la vita spirituale dall'originaria unità indifferenziata. Dal bisogno scaturisce il lavoro, da cui poi il tipo di rapporto economico e infine la famiglia e il popolo, che è la forma più alta di eticità (più della stessa famiglia).




Le opere della maturità

Fenomenologia dello spirito (1807)
Scienza della logica (Norimberga, 1812 e 1816)
Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (Heidelberg, 1817; riedita, con ampiamenti, nel 1827 e nel 1830)la più compiuta formulazione del sistema di Hegel
Lezioni sulla filosofia della storia (postuma)
Estetica (postuma)
Lezioni sulla filosofia della religione (postuma)
Lezioni sulla storia della filosofia (postuma)


Fenomenologia dello Spirito

la Prefazione
a) critica Kant: per la sua pretesa di giudicare la conoscenza dall'esterno (mentre "non si impara a nuotare stando fuori dall'acqua"); la ragione non può dubitare della sua validità in generale, dato che è pur sempre lei a dubitare (impossibile essere giudice e imputata ad un tempo). Si può perciò mettere in discussione una sapere parziale a partire da un altro sapere, più perfetto)
b) critica Schelling: il suo errore è di concepire l'Assoluto come indifferenza, appiattimento dei contorni (una "notte in cui tutte le vacche sono nere"), attingibile perciò dall'intuizione, con un "colpo di pistola" immediato. Invece esso è l'Intero, in cui le differenze non sono annientate, e che non è Sostanza (statica), ma Soggetto (dinamico), si sviluppa realizzandosi progressivamente, mediante tappe o "figure" e così la filosofia lo raggiunge mediante uno sviluppo, la "fatica del concetto", che ripercorre tali figure.
"tutto dipende da questo: che si colga e si esprima il vero non come sostanza, ma altrettanto decisamente come Soggetto."
"Il vero è l'intero. Ma l'intero è soltanto l'essenza che si compie mediante il suo sviluppo. Bisogna dire dell'assoluto che esso è essenzialmente risultato, che esso solo alla fine è ciò che è in verità." per l'intero brano


le "le figure" della Fenomenologia
La fenomenologia dello Spirito è divisa in sei sezioni: coscienza, autocoscienza, ragione, spirito, religione e filosofia. Di esse la più giustamente famosa è la seconda, l'autocoscienza. Accenniamo anche alla prima.


1) la coscienza
Si scandisce nei tre momenti della certezza sensibile (limitata all'hic et nunc), della percezione (coscienza universale e globale ogg) e dell'intelletto (pensa che l'oggetto sia altro).
2)l'autocoscienza
Hegel stesso dice che "l'autocoscienza è in sè e per sè per un'altra; ossia è soltanto come un qualcosa di riconosciuto" "per l'autocoscienza c'è un'altra autocoscienza".
la dialettica servo/padronela prima manifestazione della vita è l'appetito, donde lotta per l'autoconservazione vince chi avrebbe accettato di morire pur di non essere schiavo, "soltanto mettendo in gioco la vita si conserva la libertà (..). L'individuo che non ha messo a repentaglio la vita può ben venir riconosciuto come persona, ma non ha raggiunto la verità di questo riconoscimento come riconoscimento di autocoscienza indipendente"; ma al contempo lo schiavo diviene necessario al padrone a) conoscitivamente: ha bisogno di uno che lo riconosca per essere padrone b) praticamente: lo schiavo è colui che plasma le cose, e che le media al padrone, che perciò dipende da lui.
stoicismoper Hegel dalla schiavitù si esce col pensiero (cfr. Epitteto, lo schiavo-filosofo): il suo principio è "la coscienza è essere pensante" e qualcosa ha valore "solo in quanto la coscienza ivi si comporti come essenza pensante"; "lo stoicismo è la libertà che (...) ritorna nella pura universalità del pensiero" ma "l'essenza di questa autocoscienza è in pari tempo soltanto un'essenza astratta"; "la libertà nel pensiero ha soltanto il pensiero puro per sua verità -verità che è senza il riempimento della vita- ed è quindi soltanto il concetto della libertà, ma non proprio la libertà vitale"
scetticismoil pensiero, staccato dal mondo reale, finisce col negarlo: lo stoicismo trapassa nello scetticismo "polemico contro la              molteplice indipendenza delle cose" ; "il pensiero diventa pensare perfetto che annienta l'essere del mondo molteplicemente determinato" , e "indica l'inessenzialità di ciò che ha importanza nel comportamento del dominare e del servire"
coscienza infelicela coscienza è infelice, perchè "scissa entro sé stessa", tra una coscienza transmutabile (umana) e una instrasmutabile (divina), ponendo l'Assoluto nella trascendenza, nell'Instrasmutabile. Più che pensiero è devozione, subordinazione della coscienza singola a Dio, a cui riconosce di dovere tutto come un dono. Il culmine è l'ascetismo, con cui tende a liberarsi dalla miseria della carne unificandosi con l'Immutabile. Ma proprio in questa unificazione la coscienza riconosce di essere lei stessa la coscienza assoluta (possibile allusione ai mistici fiamminghi, o al panteismo).




3)la ragione
È la "certezza di essere ogni realtà", il che le rende accettabile quel mondo che prima le sembrava diverso da sé, antitetico a sé. Questa certezza per divenire verità deve giustificarsi: a)dapprima cercandosi nel mondo della natura, contemplandolo (naturalismo Rinascimentale); attraverso la ricerca delle leggi naturali, la ragione cerca nel mondo oggettivo nient'altro che sé stessa, benché non lo sappia. b)poi si cerca nell'azione: prima nel piacere (cfr. Faust di Goethe), che però la travolge come qualcosa di estraneo: allora si dà alla legge del cuore (cfr. i Romantici), che però è ancora troppo individuale e urta contro la legge di tutti: così, per vincere la potenza superiore di tale legge esterna punta sulla virtù, che però è qualcosa di astratto, donchisciottesco (allusione a Robespierre, secondo Abbagnano): solo nell'eticità, nell'operare nello Stato, la Ragione trova pienamente sé stessa, deponendo ogni scissione, ogni infelicità e raggiungendo pace e sicurezza.
4) lo spirito
Nasce dalla ragione diventata eticità, dentro un popolo (sostanza della vita degli individui). Hegel ne segue l'evoluzione in tre momenti essenziali: il mondo greco, quello romano e quello moderno.
a) il mondo greco è il mondo della "libertà bella", spontaneo inserimento dell'individuo nello Stato. Già in esso però si manifestano antitesi *tra legge umana (quella della polis) e divina (testimoniata dalla Antigone), e *tra consapevolezza umana e Fato  (documentata nell'Edipo Re).
b) il mondo romano è poi il momento della antitesi (tra individuo e legge universale)
c) il mondo moderno è così chiamato ad essere la sintesi, destinata ad aversi quando avverrà l'alienazione di sè da parte degli individui (come enti naturali) nello Stato e nella società [secondo Hyppolite Hegel pensa qui a Hobbes, Locke e soprattutto Rousseau], costruendo così la civiltà (Bildung).
A ciò si oppongono: *la fede, che la giudica vanità; e *la pura "intellezione" (l'illuminismo), che si chiude nel finito. SSia Kant sia la Rivoluzione francese, in tal senso non sanno conciliare, rispettivamente: legge e volontà, stato e individuo.
Il romanticismo vi si avvicina (proclamando la sanità degli impulsi immediati), ma resta ancora soggettivista, con la sua idea di "anima bella" (da Hegel in precedenza approvata e ora criticata).
5) la religione
A differenza di Schleiermacher H. le riconosce la valenza di pensiero, pur indicandone il limite nel suo separare il divino dall'umano.
Distigue tre tipi di religione: *quella naturale (che pone il divino in realtà materiali, come animali e piante); *la religione artistica (quella greca, che si avvale soprattutto della scultura, degli oracoli, della tragedia) e * quella rivelata, che ha il suo culmine nel Cristianesimo (l'Assoluto come presente).
6) la filosofia
Hegel vi traccia un rapido abbozzo della sua storia, da Cartesio a Schelling.

in sintesi

il suo sistema, com'è noto, si divide in tre parti:
la scienza della Logica
Idea in sè
"Dio" (/ovvero lo spirito umano) com'era prima di creare il mondo
la filosofia della natura
Idea per sè
la natura, ovvero lo spirito alienatosi, uscito da sè
la filosofia dello spirito
Idea in sè e per sè
lo spirito rientrato in sè stesso
soggettivooggettivoassoluto

la scienza della Logica

ossia la contraddizione come legge fondamentale del reale, o lateorizzazione programmatica della menzogna
"Sia il vostro parlare sì, sì, no, no"
definizione
"La logica è la scienza dell'idea pura, dell'idea nell'astratto elemento del pensiero" (Scienza della Logica, d'ora in poi WL, 19)
essa studia:
  • la semplice impalcatura delle forme dello spirito,
  • i principi, le strutture che stanno a fondamento delle realtà concrete date dall'esperienza,
  • le idee esangui, il "regno delle ombre", il "mondo delle semplici essenzialità, libero da ogni concrezione sensibile"
  • "Dio come è nella sua terna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito".
il pensiero èa. [atto del soggetto] "una delle attività o facoltà spirituali" del soggetto, "accanto alla sensibilità ,all'intuizione, alla fantasia, all'appetizione, al volere, etc" [WL,20]
b. [che si rapporto ad un oggetto] "riflessione su qualche cosa", pensiero di qualcosa[WL,21]
c. [trasformandolo] mutamento prodotto nell'oggetto, facendolo affiorare alla coscienza nella sua vera natura (oltre la sensazione) [WL, 22]
d. [anzi creandolo] il pensiero scopre di essere produttivo dell'oggetto; "quella vera natura [dell'oggetto] è il prodotto del mio spirito (..) come soggetto pensante (ossia della mia libertà)." [WL,23]


ne segue l'identità di logica e metafisica
Infatti l'oggetto della metafisica è l'essere, ma l'essere coincide con pensiero, che è l'oggetto della logica. Tale identità non è stata riconosciuta da subito nella storia della filosofia, la si è guadagnata in una storia, che ha visto tre fondamentali momenti (anche qui: tesi, antitesti e sintesi), ossia TRE POSIZIONI DELL'ESSERE rispetto all'OGGETTIVITà


1) LA VECCHIA METAFISICA unità (imperfetta e relativa) pensiero/essereCioè la prima posizione del pensiero rispetto all'oggettività [WL, 26/36].
Procedeva ingenuamente, credendo di potersi rivolgere direttamente agli oggetti: l'essere è colto dal pensiero, il pensiero è in unità con l'essere.
Di positivo essa "aveva un concetto più alto del pensiero, che non nei nostri tempi" -> "metteva infatti per base che ciò che per mezzo del pensiero si conosceva delle cose, fosse il solo veramente vero che le cose racchiudevano." [non esiste un al-di-là sconosciuto] "Riteneva perciò che il pensiero e le determinazioni del pensiero non fossero un che di estraneo agli oggetti, ma anzi fossero la loro essenza, ossia che le cose e il pensare le cose coincidessero in sè e per sè"
Suoi limiti furono a) credere che le determinazioni fossero qualcosa di dato, di oggettivo, e b)credere che, essendo essenzialmente finite, fossero rette dal principio di non contraddizione, per cui di due opposte, l'una fosse vera e l'altra falsa. Il che viene bollato come dogmatismo.
2) il DUALISMO MODERNOseparazione pensiero/esserePer questa impostazione l'essere è al di là del pensiero. Assume due forme:
a) l'empirismo (§37/9) esprime un bisogno di concretezza (criticando come astratti i concetti metafisici) e l'esigenza di un punto di appoggio per dimostrare tutto;
b) il criticismo (§40/60) che ritiene l'esperienza, come per l'empirismo, "unico terreno della conoscenza" (§ 40); Hegel valuta positivamente che le categorie siano condizioni di oggettività (non c'è esposizione senza di loro) negativamente che a) restino le cose-in-sé, e che b)le opposizioni non si concilino (la ragione che unifica è qualcosa di astratto, §52, è "unità indeterminata")
3) SAPERE IMMEDIATO perfetta unità pensiero/essere(§ 61/78) Ciò che questo sapere immediato sa, è che l'infinito, l'eterno, Dio, che è nella nostra rappresentazione, anche è (§64). Ed è non semplice idea (§70), nè semplice essere, ma unità di idea e di essere; come già diceva nella Fenomenologia: il vero è l'intiero.

le parti della Logica


dottrina dell'essere
 essere il primo inizio non può essere qualcosa di mediato o di maggiormente determinato (§ 86)è il livello più povero della realtà, in quanto massimamente indeterminato e privo di caratteristiche;
è la pura astrazione e di conseguenza l'assolutamente                    negativo (§ 87)
è l'essere l'inizio perché il "cominciamento" deve essere dal concetto più immediato, quello che non presuppone altri concetti a monte, ma questo è solo nell'indeterminato, poiché qualsiasi determinazione supporrebbe una relazione/opposizione ad altri concetti (ergo non sarebbe immediato, ma supporrebbe altro), e il più indeterminato è appunto l'essere. . Osserva Hegel che l'io che pone lio di Fichte e l'indifferenza di Schelling sembrerebbero altrettanto buoni come inizio, ma non sono veramente qualcosa di primo.
Tale concezione si oppone diametralmente a quella dell'esse ut actus di Tommaso d'Aquino, che vede invece nell'essere la massima perfezione e l'attualità suprema (per cui Dio è per lui l'Ipsum Esse Subsistens). In tal modo l'essere risulta inferiore tanto                    al divenire (storicismo) quanto al pensiero (attivismo): sulla contemplazione della verità, predomina così il progetto.
 nulla pur essendo la antitesi dell'essere, essendo al massimo grado di indeterminatezza, si identifica con esso, dando vita alla sintesi, il divenire. H. peraltro precisa che la identità di essere e nulla non significa che una data cosa concreta sia identica al suo non essere, ma si riferisce ai concetti generali di essere e nulla. Infatti l'unità di essere e nulla non è totale appiattimento, è al contempo diversità . Certo tale identità significa che la realtà è contraddittoria.
 divenireper H. è il momento più perfetto della prima triade. La verità dell'essere, come quella del nulla, è quindi la loro unità, e questa unità è il divenire (§ 88). In polemica esplicita con Parmenide, ma anche contro Aristotele, per lui il divenire ha un primato sull'essere.
dottrina dell'essenza essa è la "verità dell'essere", l'interiorità, la profondità, l'internarsi dell'essere; rispetto all'essenza il semplice essere è apparenza (schein);a) l'essenza è strutturata dai principi di
  • identità (per sé "vuota tautologia", contraddetto dalla differenza soggetto/predicato) (§115);
  • differenza (per cui ogni cosa è diversa dalla altre) (§116/20);
  • ragion sufficiente/contraddizione (sintesi dei due precedenti): gli opposti entrano in rapporto tra loro (§121/2);
l'identità non è che la determinazione del morto essere (...)
la contraddizione è la radice di ogni movimento e vitalità
b) per questa contraddizione il finito rimanda a un fondamento (Grund); e qui H. parla delle prove dell'esistenza di Dio:
contesta le prova cosmologiche, che partono dal finito, per dimostrare l'Infinito
"La vera conclusione da un essere finito e accidentale a un essere assolutamente necessario non sta nel concludere a questo assolutamente necessario partendo dal finito e accidentale, come da un essere che si trovi a fondamento" [WL, logica dell'essenza]
"Nella solita maniera di dimostrare, l'essere del finito sembra il fondamento dell'assoluto; c'è l'Assoluto, perché                c'è il finito.
La verità è invece che poiché il finito è l'opposizione contraddicentesi in sé stessa, poiché esso non è, l'Assoluto è.(..) Il non essere del finito è l'essere dell'assoluto." [ibi, cfr. Fabro, 127]
approva quella ontologica anselmiana (è impossibile pensare Dio senza pensarlo esistente )

dottrina del concettoè "la verità della sostanza" (nel senso che per l'idealismo di H. si dà piena e totale intelligibilità del reale). Di per sè il concetto è *universale, ma poichè deve afferrare *l'individuale, deve farsi *giudizio (cioè coincidenza di universale e particolare: universale concreto) e sillogismo (cioè comprensione del perchè di tale coincidenza: la razionalità del reale va dimostrata, non può essere intuita).Hegel distingue tre momenti del concetto: il c. soggettivo, il c. oggettivo e l'idea.


Mentre per Parmenide e Aristotele (sia pur in diverso senso) l'essere non può non essere, ossia l'essere è non-contraddittorio, ossia è uno, ossia ogni cosa è identica a sè stessa per Hegel l'essere è e non è, è contraddittorio, è diviso in polarità dialettiche che si contraddicono e si sintetizzano, ossia ogni cosa richiama il suo contrario, ed è al contempo sè stessa e il suo contrario, e la sintesi di entrambi. Ne segue, ad esempio, che "il falso non è che un momento della verità".

la filosofia della natura

"Narrano i cieli la Gloria di Dio
l'opera delle Sue mani annuncia il firmamento"
La filosofia della natura è la parte meno originale e meno pensata del Sistema.
1) rapporto filosofia/scienze. Le Scienze empiriche hanno una funzione necessaria, ma puramente preparatoria: è la filosofia che attribuisce loro il loro vero significato (non molto diversamente da Schelling, anche H. cerca il senso filosofico delle leggi scientifiche).
2) la natura, in generale. La Natura è "l'idea nella forma dell'esser altro", fuori di sé, "decaduta", alienata. È il momento dell'antitesi, della contraddizione insoluta. È peraltro passaggio necessario per la realizzazione dialettica dello Spirito.
H. afferma la intelligibilità della natura, per cui sostiene una concezione antimeccanicistica e organicistica: la Ragione infatti non si perde realmente, perché nel mondo dello Spirito si ritroverà, superando questa fase di esteriorità.
3) le parti della f. della natura. Anche qui H. tripartisce il discorso:


meccanicain cui tratta del moto locale, quindi di spazio e tempo, da lui visti (a differenza di Kant) come inerenti alla natura, pur  essendo qualcosa di astratto 
fisica
individualità universale quella degli elementi della materia
a sua volta suddivisa in fisica della individualità particolare quella delle proprietà della materia (peso specifico, coesione, suono, calore)
individualità totale concernente le proprietà magnetiche, elettriche e chimiche.
organica
Vi rifiuta qualsiasi evoluzionismo nella natura: il tempo naturale è ripetitivo;tuttavia la vita fa sì che l'Idea emerga sempre più, raccogliendosi in unità dalla dispersione materiale.
H. la tripartisce in a) natura geologica, b) natura vegetale e c) organismo animale.


Filosofia della natura o del disprezzo per la natura
La natura è infatti denigrata (è spirito uscito da sè, alienato). Hegel rifiutò più volte di andare con gli amici ad ammirare la bellezza delle montagne: per lui non erano davvero reali, non essendo altro che un prodotto dello spirito. In questo senso molto più onesto era stato Kant, grande ammiratore del "cielo stellato". Se Hegel, fermando la catena macchinosa degli ingranaggi artificiosamente dialettici, si fosse fermato a contemplare il cielo stellato! Avrebbe intuito forse che il mondo esiste davvero, non è creazione del nostro spirito, avrebbe forse elevato il suo cuore e la sua mente a Colui di cui la realtà sensibile è segno, riconoscendo che tutto dipende da Lui.

la filosofia dello spirito

Concerne l'Idea ritornata in Sé, dopo l'estraneazione nella natura, di cui lo Spirito è la "verità".
suddivisione della filosofia dello spirito
"§9 (385). Lo svolgimento dello spirito importa, che esso:
I. è nella forma della relazione con se stesso: dentro di esso la totalità ideale dell'Idea diviene a lui, vale a dire ciò che è suo concetto, diventa per lui, e il suo essere sta appunto nell'essere in possesso di sé, cioè nell’esser libero. Tale è lo spirito soggettivo;
II. è nella forma della realtà, come di un mondo da produrre e prodotto da esso, nel quale la libertà sta come necessità esistente. Tale è lo spirito oggettivo;
III. è nell'unità dell'oggettività dello spirito e della sua idealità o del suo concetto: unità, che è in sé e per sé, ed eternamente si produce: lo spirito nella sua verità assoluta. Tale è lo spirito assoluto."
lo spirito soggettivo
E l'Idea "nella forma della relazione con sé stessa": "§11 (387). Lo spirito, che si svolge nella sua idealità, è lo spirito in quanto conoscitivo. Ma il conoscere qui non viene concepito meramente come è nella determinazione dell'idea in quanto logica (§223); sebbene nel modo in cui lo spirito concreto si determina alla coscienza.(...) Nell'anima si desta la coscienza; la coscienza si pone come ragione, che si è immediatamente destata alla consapevolezza di sé; la quale ragione, mediante la sua attività, si libera col farsi oggettività, coscienza del suo concetto."
"A) in sé o immediatamente. Così esso è anima o spirito naturale: il che è l’oggetto dell'Antropologia;"
Antropologia: H. vi sviluppa la tesi della 
  • l'unità di anima e corpo (contro Cartesio), e
  • il primato del pensiero sulla sensazione, che si limita registrare passivamente il dato, generando l'illusione che esso sia appunto un dato, indipendente dalla attività dello Spirito umano.
Lo spirito soggettivo è: 
"B) per sé o mediatamente, come riflessione ancora identica in sé e in altro, lo spirito nella sua relazione o particolarizzamento, la coscienza: il che è l’oggetto della Fenomenologia dello spirito."
 Fenomenologia dello spirito: vi riprende molti concetti dell'omonima opera giovanile
"C) lo spirito che si determina in sé, come soggetto per sé: il che è l’oggetto della Psicologia."
Psicologia: studia lo spirito, tripartito in 
a)teoretico (determinato dagli oggetti, con scala ascendente di intuizione \immaginazione \memoria \pensiero);
b)pratico (come volere individuale, determinato da ciò che attrae, qui ed ora; per H. l'impulso e il sentimento, pur rivalutati rispetto al razionalismo kantiano e illuminista, sono da sottomettere all'universalità della ragione);
c)libero (il volere è libero solo quando è razionale, quando il sentimento è plasmato dal dovere, dall'universalità; in che cosa poi consista il dovere lo può dire solo il momento successivo: lo spirito oggettivo).

lo spirito oggettivo
ossia l'Idea "nella forma della realtà, come di un mondo da produrre" vede il succedersi di tre momenti:
il diritto
ossia il momento della pura esteriorità prescinde dall'intenzione, e considera solo il risultato concetti centrali nel diritto sono di persona (soggetto capace di proprietà, che in quanto tale si rapporta agli altri), di contratto, torto, diritto contro il torto. non esistendo un diritto naturale, metastorico, sono sempre e comunque giuste le leggi positive: "tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale" (Fil. del diritto).
ossia il momento della pura interiorità considera solo l'intenzione centrale in essa è il concetto di soggetto, non più di persona, come "volontà riflessa di sè, che accetta consapevolmente la legge, riconoscendola come sua. Suoi elementi sono: l'interiorità, il valore esclusivo dell'intenzione, il carattere universale e formale della legge, la scissione tra virtù e felicità. Hegel pensa qui a Kant, contro cui polemizza, per l'irrisolta tensione tra essere e dover essere, che rende la moralità paragonabile a un duello allo specchio, strutturalmente interminabile.
l'eticità ossia la sintesi di interiorità ed esteriorità è il vero ambito in cui il singolo uomo può attuarsi moralmente
 famiglia  unita, ma particolare
 società civile  universale, ma divisa
 Stato  massimo della unità e della universalità


in sintesi
  • Hegel nega che esista una legge naturale (=precedente le leggi poste dagli stati): vano è affannarsi con la legge morale, come faceva Kant (certo, prendendosela con lui ha miglior gioco: Kant era la caricatura della moralità naturale); la moralità non è faccenda personale, non è il mio rapporto con la legge (e questo passi) nè il mio rapporto col Destino (e qui Hegel sbaglia).
    Avrebbe ragione a dire che una lotta senza tregua contro la propria non-moralità (quale la pensava Kant) è controproducente e insostenibile, se si fonda sulle proprie forze e in virtù di un proprio progetto e non avendo presente altro che il proprio io, da rendere perfetto: senza rapporto con un TU non c'è vera morale.
    Ma ha avuto torto a buttar via, col moralismo kantiano, la stessa idea di morale, di dovere che l'individuo, anzi la persona avverte in sè e che non è condizionabile o cancellabile dalla società.
  • Di conseguenza affida tutto alla legge positiva: "tutto ciò che è reale è razionale", ossia la legge dello stato (ciò che è "reale") ha sempre ragione (è "razionale"). Anche quando chiede di uccidere, o di torturare: ha sempre ragione. Inutile tormentarsi: in piena tranquillità si può e deve obbedire allo Stato. Non esiste termine di paragone per la legge positiva.
  • Nello stato e solo in esso quindi si attua pienamente l'uomo: né la famiglia (importante sì, ma solo se relazionata alla totalità statale), nè la società (che secondo Hegel è minata dagli egoismi individuali, non ha una vera unità ma è solo una somma di tanti interessi particolari) costituiscono ambiti degni di una stima e di un rispetto incondizionati, ma solo lo Stato
"la realtà della libertà concreta è volontà divina, in quanto spirito esplicantesi a forma reale e ad organizzazione di un mondo" , "è totalità organica che precede gli individui
"tutto ciò che l'uomo è, lo deve allo Stato: solo in esso egli ha la sua essenza.[..] Lo stato è l'unità della volontà universale, essenziale, e di quella soggettiva."
"Lo Stato non esiste per i cittadini: si potrebbe dire che esso è il fine, e quelli sono i mezzi."


la storia
Non esiste un solo stato, e il rapporto tra gli stati non è qualcosa di statico: dalla molteplicità degli stati, in dinamica evoluzione nasce la storia.
in generale E' possibile comprendere la storia, la sua logica. Infatti solo apparentemente la storia è un succedersi di eventi casuali, contingenti. In realtà essa è razionale, di una razionalità che non deve essere creduta, come potrebbe essere nel caso di una teologia della storia, ma può essere saputa, compresa dalla ragione. Dunque esiste una filosofia della storia. E questa coglie non solo delle linee generali, delle leggi universali, delle costanti, ma capisce esaurientemente ogni dettaglio concreto della storia.
Che cosa è allora la storia? In generale essa è attuazione e manifestazione progressiva della ragione, dell'Assoluto, dello Spirito. Infatti Dio diviene, si realizza, nella storia.
L'Assoluto è quindi esaurientemente nella storia. Non esiste perciò niente di metastorico. Non esiste giustizia metastorica (lo si è già visto: non esiste un diritto naturale metastorico):
piuttosto "la storia universale è in giudizio universale" (Weltgeschichte ist Weltgericht, § 548). Dunque:
    • tutto ciò che accade nella storia ha una sua ragione, una sua necessità, come momento inevitabile del dispiegarsi della Ragione assoluta;
    • anche la guerra è giustificata, ed è bene, né può essere eliminata (in ciò H. si stacca non solo dal Cristianesimo ma anche da Kant).
Il fine della storia in questa prospettiva è "che lo spirito giunga al sapere di ciò che esso realmente è (...) manifesti ogettivamente sè stesso", ossia è la piena automanifestazione dello spirito in una realtà storico-oggettiva.
La modalità attraverso cui si giunge a tale fine è:
  • il succedersi di vari popoli (in effetti l'azione dell'individuo, dice H., è tanto più efficace, quanto più si innerva nella vita del suo popolo), in cui via via si incarna lo Spirito universale;
  • quest'ultimo si serve anche di motivazioni passionali e particolari per raggiungere attraverso di esse dei fini universali: si attua così la astuzia della ragione;
  • nella storia si evidenziano dei personaggi di speciale portata, degli eroi o weltgeschichtlichen individuen (individui storico-universali), che sanno cogliere il sebso in cui va la storia, e sanno collocarsi su un punto di vista superiore (beché in qualche modo anche loro soggiacciano alla Astuzia della Ragione); il loro segno è il successo, e la gente comune sente che li deve seguire (si pensi a personaggi come Alessandro Magno, Cesare, Napoleone).


In particolare
Hegel ripartisce la storia in tre grandi momenti:
il mondo orientale caratterizzato dalla sottomissione di tutti (al monarca, solo libero)
il mondo greco-romano caratterizzato dalla libertà di alcuni (accanto però alla schiavitù di altri)
il mondo cristiano-germanico caratterizzato dalla libertà di tutti
lo spirito assoluto
Si scandisce, ancora una volta, in tre momenti: arte, religione e filosofia.
  1. Nell'arte l'Idea si coglie ancora avviluppata in un involucro materiale, il contenuto (l'Idea) è racchiuso in una forma (materiale):
      a seconda di come si rapportino contenuto ideale e forma materiale Hegel distingue tre tipi di arte:
    • simbolica, in cui l'Idea è come sommersa dall'involucro materiale-oggettivo:
    • classica, in cui si raggiunge un equilibrio tra forma e contenuto (Hegel apprezza molto la bellezza dell'arte classica, e in èparticolare greca, quale vertice estetico insuperabile);
    • romantica, in cui la soggettività creativa tende a prevalere sulla oggettività materiale, per cui la forma trabocca del contenuto, che sempre meno ne soporta le regole e i vincoli; si prefigura, al termine della parabola dell'arte romantica (non limitata peraltro a ciò che comunemente si intende con tale espressione) una fine dell'arte, che deve trapassare in forme più alte e adeguate di autocoscienza spirituale.
  2. Nella religione lo Spirito si coglie stavolta non più in un dato materiale, ma nel suo essere spirito; tuttavia lo struimento di tale cogliersi non è ancora la ragione, ma l'immaginazione, la rappresentazione, per cui permane una distanza tra finito e Infinito: Dio viene immaginato come un Essere trascendente (ciò che per Hegel è sbagliato).
      Tra tutte le religioni sono da ritenersi privilegiate quelle monotestiche, che ammettono che il Divino sia Infinito. E tra i monoteismi eccelle il Cristianesimo, che i seguenti pregi:
    • concepisce l'Infinito come dinamico e non statico (a differenza di Ebraismo e Islam): Dio è Trinità, prefigurazione, ai suoi occhi, della sua dialettica di tesi/antitesi e sintesi;
    • la sua idea di Incarnazione di Dio prefigura (mitologicamente) l'idea razionale della identità tra umano e divino; quello che la fede cristiana ritiene essere vero solo dell'Uomo Gesù di nazaret, la filosofia hegeliana lo ritiene vero per l'umanità in quanto tale;
  3. solo nella filosofia si ha una piena e perfetta autocoscienza dello Spirito, che valendosi finalmente della ragione, del concetto, si sa ormai Dio, sa di essere la totalità, l'infinito.

note

1. il divenire sembra paradossale, e si possono fare in effetti delle obiezioni, "ad esempio che è lo stesso se la mia casa, il mio patrimonio, l'aria che respiro, questa città, il diritto, il sole, lo spirito, Dio, siano o non siano:" (§88 ):

Hegel risponde che a) questi esempi concernono cose utili, e la domanda è in realtà se interessino a me (se mi siano utili, e se mi sia indifferente che siano o meno): ma la filosofia deve staccare dal criterio di utilità; b) comunque, in generale, l'essere e il nulla che si identificano non sono riempiti di contenuti determinati, ma sono vuoti.