venerdì 28 ottobre 2011

Sul significato di "spirito guida".




Lo stesso appellativo "spirito guida" è qualcosa tra il mistico e il romantico che rispecchia il periodo in cui l'esoterismo era presentato in veste personalizzata. Le forze naturali erano persone, le leggi non erano leggi ma volontà, motu proprio di certi individui.

D'altra parte, la mentalità di quei tempi non poteva capire diversamente da così. Tutto era personificato,  a cominciare dal vento, dalla terra, dai fulmini, dai fenomeni naturali: erano tutte persone o deità. Anche lo spirito guida fa parte di quel modo di rappresentare la realtà.
Che cosa sia invece lo spirito guida, in una realtà nella quale non c'è posto per l'errore, ma tutto avviene ordinatamente, direi matematicamente, o addirittura automaticamente, lo si deve scoprire ora se si accetta una verità di questo tipo. 

Gli stessi cosiddetti "signori del karma", che cosa ci stanno a fare in una realtà in cui tutto procede per leggi, automaticamente, diciamolo pure? Non ci stanno a fare proprio niente. Sarebbe diverso se la realtà avesse bisogno di applicatori, di esecutori della legge, di persone cioè incaricate di sorvegliare che le leggi siano applicate bene, in quel caso sè; ma siccome non è assolutamente tale la realtà, perchè tutto avviene in maniera ordinata, spontanea e naturale, non c'è alcun bisogno di applicatori della legge.

Lo spirito guida non è quello spirito che, diciamo, salva il suo protetto dalla cattiva sorte o dai pericoli che possono capitargli; e quindi lo si deve poi ringraziare, perchè ha cercato di strapparti a Satana per riportarti sulla retta strada; ma è, nella visione della comunione dei sentire, l'essere a cui fanno capo vari stati di coscienza che sono altrettanti esseri. E' uno stato di coscienza che racchiude in sè altri stati di coscienza meno ampi, evidentemente, di quello da lui rappresentato.

Questo discorso esclude sia che lo spirito guida possa in qualche modo salvaguardare i suoi protetti dalle esperienze pericolose o dolorose, sia che possa scegliere gli esseri che faranno o che fanno capo a lui. Tutto è ordinato, è proprio lo svolgimento di una equazione, passaggio dopo passaggio, in cui niente è lasciato all'improvvisazione o all'errore o alla distrazione di qualcuno.
Tutto è ordinato, pur esistendo fra le maglie di questo ordine prezioso e preciso la possibilità di fare dei salti di qualità, cioè di avere un margine di libertà, di autonomia. Rivolgersi allo spirito guida è come rivolgersi ad un voi stessi proiettati nel futuro - del sentire, naturalmente, se così posso dire.








L'ESISTENZA DEL DOLORE......


L'esistenza del dolore poggia su precise ragioni, quanto meno su quella di spingere gli uomini a serrarsi, a colláborare, a lavorare uniti per cancellarlo dalla tetra. Realizzandosi ciò, l'importante tappa raggiunta non sarebbe tanto l'assenza di dolore, quanto l'unione fraterna degli esseri.
Guai a chi passivamente subisse il dolore! Lo svuoterebbe di gran parte del suo significato. Perciò, fratelli che soffrite, imprecate, maledite, cercate, chiedetevi perché. Cosí facendo fate quello che il dolore deve farvi fare! Ma non identificatevi con il vostro dolore. Voi siete molto di piú.

Non lasciate che il dolore occupi tutti voi stessi e la vostra vita, divenga l'unico scopo di essa e vi paralizzi. Pensate che non vi è mandato per mettervi alla prova o che so io, ma che voi stessi l'avete richiamato, anche se al momento non ricordate e non capite perché.

Forse, se pensate che voi stessi siete la ragione del vostro soffrire, vi sarà piú facile reagire, ritrovare la serenità. Ma soprattutto ricordate che al di fuori della dualità basilare di cui il dolore .è un elemento, ciò che sembra crudeltà è supremo, reale Amore che attraverso alle lezioni della vita cosí ci parla:

« Figlio mio, non ostinarti a cercare la felicità dove non l'ho posta. Essa non è nel possesso dei beni materiali, nell'appagamento dei sensi, nell'esaltazione del tuo io o nella condiscendenza che tu puoi avere da parte dei tuoi simili. Io solo sono la vera beatitudine.
Il mondo dei fenomeni in cui ti muovi ed agisci non deve essere lo scopo della tua vita, ma solo un mezzo che ti conduce a me, perché io solo sono la tua vera esistenza, la tua vera essenza.
Per quanto tu sia debole, insufficiente e misero, per quanto abbietto tu sia giudicato o tu sia, ricordati: io ti amo, perché io solo sono il vero amore.
Cercami e non sarai deluso. Trovami e non conoscerai mai piú il dolore ».

                                                                                                                                                                             KEMPIS


                                

Affanno afflizione amarezza angustia ansietà angoscia, corruccio crepacuore, dispiacere duolo disperazione, inquietudine, malinconia macerazione mestizia, oppressione, patema patimento, pena pianto, rammarico rodimento, sofferenza spina squarcio schianto spasimo strazio supplizio, tristezza tribolazione travaglio tortura tormento: dolore.

Chi è quell'essere felice che può domandarsi: « Cos'è il dolore? ».
No!, non è acqua quella che sostanzia gli oceani, i poli, e rende fertile la terra: sono lacrime versate dal dolore.
Vi guardo, creature d'ogni specie, razza, ceto ed età: siete tutte segnate e dominate dal dolore. Vi guardo cercare affannosamente il piacere ed affannosamente trovare la sofferenza.

Il dolore non è come il sole, che splende in egual misura sui giusti e sugli ingiusti; sembra accanirsi con i buoni, gli inermi, lasciando perciò ‑in grande perplessità chi soffre e chi è spettatore della sofferenza, che in ciò vedono una ingiustizia.
Infatti il dolore - che sia sensazione fisica o sentimento appare assolutamente dannoso e tanto negativo che l'uomo ne fa la maledizione di Dio.
L'esistenza del dolore è, al tempo stesso, lacerante esperienza e, per gli esseri dotati di raziocinio, paurosa minaccia nonché causa di angosciosi interrogativi.

Generalmente l'uomo accetta piú l'esistenza della morte che quella del dolore. Ed è giusto. Perché mai temere la morte tanto da sognare l'immortalità? Che sciocchezza! L'uomo che fosse immortale sarebbe il piú disgraziato degli esseri. La morte è la piú grande benedizione: libera l'umanità dalla tirannia dei potenti, dalla noia dei sapienti, dal peso dei notabili.

Pensate un attimo a che cosa sarebbe l'umanità se nessun uomo del passato fosse morto, specialmente i potenti. Tutti vorrebbero continuare a pesare sulla storia. Ve la immaginate che Babilonia? E quanto è comodo, invece, poterli mettere in disparte, obliarli, seppellirli nel silenzio.
Tu che temi la morte, non ti rendi conto quanto le devi? Vorresti continuare a vivere? Ebbene, se anche tu fermassi il decadere del tuo corpo, sei soddisfatto di te stesso come sei? O forse vorresti continuare a vivere migliorandoti via via, trasformandoti? Ma trasformarsi è morire, morire a quello che si è. E la morte è solo trasformazione.

Fortunatamente si muore di continuo. E se la morte è la regina della terra - in quanto nessun essere vivente ad essa sfugge - il dolore ne è il re.
Vivere è avere un retaggio di dolore.

Non è pessimismo il mio, è constatazione di un fatto estremamente naturale. Riconoscerlo noti è soffocare la speranza. E', assurdo, per non dire mostruoso, sperare di cambiare l'ordine naturale senza tener conto delle ragioni che lo determinano.
Questo è il punto: la ragione del dolore.
Perché mai tanto dolore affligge ogni essere vivente? E fa dubitare i raziocinanti che la vita sia un dono; e fa pensare piuttosto che introduca in un luogo di pena dove, per qualche oscura ragione, ognuno debba soffrire.
E se fosse - come nella catena alimentare della natura ogni creatura si ciba ed è cibo di altre - che le sensazioni, le emozioni, il dolore degli esseri viventi costituissero alimento per invisibili entità ultraumane? E se il dolore - che è tormento di ogni essere carnale - fosse il piacere di entità cosmiche immateriali, che si adoperassero in ogni modo per far soffrire i viventi e così trovare, esse, piú godimento? In tal modo gli esseri viventi tutti - e piú d'ogni altro l'uomo - sarebbero come animali da allevamento, fatti vivere e soffrire per il piacere di invisibili, potenti, sovrastanti, crudeli parassiti.

Questi ed altri sono i dubbi che la dilaniante crudeltà del dolore fa sorgere in chi cerca una ragione di esso.
Il credente, di fronte allo spettacolo del dolore, conosce il dubbio. Chi soffre perde la fede. Nei momenti di grande dolore anche la piú ferrea delle convinzioni spirituali, vacilla.
« Padre, perché mi hai abbandonato? » si chiese lo stesso Cristo all'acne della sofferenza.
Il dubbio che il dolore suscita nel credente si chiama « timore di aver offeso la Maestà divina » ed è intendere il dolore quale castigo.
Ma non in tutti i credenti il dolore evoca sensi di colpa; a molti fa pensare d'essere vittime di ingiustizia ed allora, spesso, diventa ribellione. « Guai a ribellarsi nel dolore! » dicono i padri spirituali.

Io, senza avere la pretesa d'esservi guida, vi dico: ribellatevi pure! Il dolore non è una cosa piacevole. E' ufficio di ogni uomo essere forte, ed è ufficio dell'uomo forte resistere al dolore. Ma non sentitevi in colpa se vi manca la rassegnazione, se non sapete accettarlo come se fosse un piacere. No!, non tento di mettere d'accordo Dio e il dolore dicendovi che è l'uomo l'artefice della propria sofferenza.
E’ un Dio di crudeltà quello che toglie il figlio alla madre, che lungamente lascia le Sue creature nei tormenti tanto da far loro invocare la morte?  E' un Dio spietato quello che fa arrancare i Suoi figli, trascinare fra mille patimenti, e rimane muto alle loro invocazioni disperate? Il peggiore degli uomini talvolta sarebbe piú pietoso.
E' un Dio impotente quello che, invocato, implorato, non dà le poche ore di sollievo che una semplice, insensibile pillola può dare? Perché Dio, nella Sua incommensurabile perfezione, ha creato il dolore? E se non lo ha voluto o lo vuole Lui, perché lo permette?
« Perché mi è successo questo? Perché devo soffrire? », si domanda il sofferente. Tutti vorrebbero conoscere il perché del loro dolore. Esistono tante risposte quanti sono quelli che patiscono. E ne esiste una che le riassume tutte: l'uomo soffre perché deve superare l'io personale ed egoistico.

Questa è la risposta. Il resto è dettaglio con poca importanza. Non è tanto un tipo di azione che determina l'effetto, quanto l'intenzione. Quindi non serve conoscere il dettaglio: conoscete voi stessi, le vostre intenzioni, e saprete il perché della vostra sofferenza.
Quante volte abbiamo ripetuto che non si tratta di sapere, ma di « essere ».

Non sempre e non necessariamente chi compie eccessi dettati dal suo orgoglio, rinasce cieco. Quando si soffre - cioè si subisce l'effetto karmico - si sta seguendo la « via dell'azione ». E' tardi per riflettere; a quel punto non c'è che il fatto che fa soffrire, vissuto, a poter dare una data maturazione che manca e mancava all'atto in cui si è determinato il karma di sofferenza.
Serve riflettere prima, nella vita di tutti i giorni; porre attenzione ai vostri rapporti con gli altri; vivere con la vostra sensibilità e la vostra considerazione una vita in cui gli altri non siano relegati al solo ruolo di comparsa, in cui vi avviate a superare l'io personale ed egoistico. Questo è il solo modo di risparmiarvi sofferenza.

Certo è che per il fatto stesso che il dolore esista, è da Dio voluto, ricade su di Lui. Ma sarebbe un Dio estremamente crudele quello che condannasse al dolore altri restandosene ben al di fuori, nella beatitudine del Suo Olimpo, a guardare chi soffre.
Tutto quanto esiste - per esistere - deve essere « sentito », ed il modo in cui ciascun essere lo « sente » è il modo attraverso al quale lo « sente » Dio; perciò è il modo attraverso al quale esiste.

Attenti a quello che ho detto.
Il dolore fa parte di una dualità della quale - saremmo tentati di dire se non temessimo di essere retorici - Dio stesso ne soffre e ne gioisce. Certo è che nulla di ciò che esiste, in senso lato, anche soggettivo - a cominciare dalle sensazioni per finire al sentire divino -, esisterebbe se non fosse in Dio, pur essendo Dio tutt'altro dal particolare.

Ma una domanda ricorre in chi riflette sul dolore e cioè se Dio avrebbe potuto evitare di creare la sofferenza, per dirla in termini di creazione. Una tale domanda rientra nel quesito piú ampio e generale, cioè: se le cose tutte avrebbero potuto essere diverse da come sono congegnate. Ed io rispondo di no. Vi rispondo con una asserzione che può essere accettata solo per fede. D'altra parte sarebbe impossibile constatare la spiegazione con la sola mente umana.

A voi che non potete tanto, quando soffrite dico: « Non ringraziate Dio per la sofferenza, né maleditelo. Quando soffrite pensate che non è tanto Dio a mandarvi quelle pene, quanto Dio a trasformare quel dolore in un balsamo per il vostro essere, il vostro esistere. Dio che non condanna né si vendica, Dio che con quel mezzo, senza alternative, vi riscatta da una vita senza coscienza, vi richiama a partecipare alla Sua vera natura.
Nel momento che richiamate su di voi il dolore e poi soffrite, sappiate che altro mezzo non v'era per condurvi innanzi d'un passo ».

Forse il dolore perde il suo sapore di maledizione ed appare meno crudele se visto in una luce diversa che libera chi soffre dall'idea di patire una punizione divina, che non lo fa sentire in colpa se non riesce ad accettare la sofferenza e che, soprattutto, fa del dolore uno strumento dell'amore divino, un mezzo per farci partecipi dell'esistenza di Dio.

Sono consapevole che quanto dico può essere recepito piú da chi è spettatore della sofferenza che da chi soffre. Chi patisce non intende ragioni, se non quella che può dare termine al suo soffrire. Ed è giusto che sia cosí.
Ma nell'ora della disperazione, quando senti di non farcela con le tue sole forze e ti volgi attorno, forse senza speranza, quanta gioia e sollievo ti dà la mano di chi ti aiuta!
Ebbene, se ti sembra bello e giusto avere trovato soccorso, perché tu pure non soccorri? E se non soffri, ma il dolore per te rappresenta una paurosa minaccia che ti paralizza e speri di non trovarlo, ti dico: « Vana è la tua speranza, prima o poi ti toccherà di patire ».

Perciò non sprecare le tue energie a sperare che non ti tocchi, ma impiegale a capire chi soffre. Se poi puoi capire, senza averle provate, quanto gravose e dolorose siano le vicissitudini dei piú, perché non ti adoperi per alleviare anche in minima parte il peso di quelle? Se puoi capire che sia giusto e bello che ogni uomo non viva solo per se stesso, ma concepisca e viva la sua vita nella solidarietà con i propri simili, pronto a sostenere la parte piú umile nella scala sociale, pronto a dare anche se non ha ricevuto, come facente parte di una sola, grande famiglia, allora perché pensi solo a te stesso e aspiri a posizioni di preminenza e prima di dare - se dai - fai il bilancio di cosa hai avuto e frapponi mille condizioni al tuo dare, finanche esigere che chi ha bisogno risponda al tuo ideale di bisognoso o addirittura ti sia simpatico?

Se puoi capire che sia giusto e bello che la società non sia un meccanismo senza calore umano in cui le istituzioni hanno perduto di vista il fine, lo scopo per cui sono state create - che é quello di aiutare gli uomini -, perché nulla fai di ciò che tu puoi fare per riscaldare i rapporti con i tuoi simili, anche semplicemente cercandoli, intrattenendoti con loro senza un tuo scopo egoistico? Perché invece fuggi chi non ti è in qualche modo utile e fai di tutto per liberarti della sua compagnia come se fosse una calamità?

Certo l'ideale sarebbe che fossi tu ad avere l'iniziativa, tu ad operare una siffatta società! Ma già tanto sarebbe che tu considerassi chi ti avvicina cosí come vorresti essere considerato.
Questo è quello che il dolore ti indirizza a farti comprendere, ad insegnarti; ma non già come un fatto di conoscenza, un patrimonio della mente, bensí come un'intima trasformazione: un essere nuovo che in tal modo sente e perciò opera, ancorché perdesse o perda il ricordo dell'esperienza avuta.

Oh dolore, primo alimento della paura! Che cosa non si fa per sottrarsi al tuo abbraccio! Sei tu che rendi sgradite certe esperienze, tu che muovi gli esseri viventi per un verso anziché per l'altro. Sarebbe forse temuta la fame se non fosse dolorosa? E chi intraprenderebbe l'odissea che comporta lo sfamarsi se il digiuno fosse piacevole? Dunque tu, dolore, condizioni le esperienze degli esseri viventi e al tempo stesso li muovi da un venefico, mortale ristagno.

Ebbene, se nelle cose che posso spiegare, tu, dolore, mi appari utile, la stessa utilità deve esserci laddove non arrivo ad afferrare la ragione della tua esistenza. In effetti tu sei il termine di una primordiale dualità, senza la quale nulla vi sarebbe di ciò che è; tu, per la tua stessa natura inviso e rifuggito da coloro che non esisterebbero e cesserebbero di esistere se non ti avessero conosciuto e non continuassero a conoscerti; tu, motore primo del divenire!
Ma dunque, se allora il tuo esistere è vitale, rifuggirti, ribellarsi alla tua opprimente presenza è un errore? Se quale termine di una dualità che dà vita ed evoluzione, tu, dolore, sei provvidenziale, perché mai ribellarsi al tuo straziante dominio? Giusto parrebbe invece supinamente subirti. Sí, è vero: il dolore è una macerazione insostituibile, ma la sua funzione è anche quella di far reagire, imprecare, rompere le situazioni spiritualmente cristallizzate, indurre a ricercare, a chiedersi: « Perché? », a diventare strumenti di speranza e di gioia!

L'esistenza del dolore poggia su precise ragioni, quanto meno su quella di spingere gli uomini a serrarsi, a colláborare, a lavorare uniti per cancellarlo dalla tetra. Realizzandosi ciò, l'importante tappa raggiunta non sarebbe tanto l'assenza di dolore, quanto l'unione fraterna degli esseri.
Guai a chi passivamente subisse il dolore! Lo svuoterebbe di gran parte del suo significato. Perciò, fratelli che soffrite, imprecate, maledite, cercate, chiedetevi perché. Cosí facendo fate quello che il dolore deve farvi fare! Ma non identificatevi con il vostro dolore. Voi siete molto di piú.

Non lasciate che il dolore occupi tutti voi stessi e la vostra vita, divenga l'unico scopo di essa e vi paralizzi. Pensate che non vi è mandato per mettervi alla prova o che so io, ma che voi stessi l'avete richiamato, anche se al momento non ricordate e non capite perché.

Forse, se pensate che voi stessi siete la ragione del vostro soffrire, vi sarà piú facile reagire, ritrovare la serenità. Ma soprattutto ricordate che al di fuori della dualità basilare di cui il dolore .è un elemento, ciò che sembra crudeltà è supremo, reale Amore che attraverso alle lezioni della vita cosí ci parla:

« Figlio mio, non ostinarti a cercare la felicità dove non l'ho posta. Essa non è nel possesso dei beni materiali, nell'appagamento dei sensi, nell'esaltazione del tuo io o nella condiscendenza che tu puoi avere da parte dei tuoi simili. Io solo sono la vera beatitudine.
Il mondo dei fenomeni in cui ti muovi ed agisci non deve essere lo scopo della tua vita, ma solo un mezzo che ti conduce a me, perché io solo sono la tua vera esistenza, la tua vera essenza.
Per quanto tu sia debole, insufficiente e misero, per quanto abbietto tu sia giudicato o tu sia, ricordati: io ti amo, perché io solo sono il vero amore.
Cercami e non sarai deluso. Trovami e non conoscerai mai piú il dolore ».

                                                                                                                                                                             KEMPIS





.


... Se Il vostro amore non conosce condizioni, dubbi, tepidezze; se amate senza essere riamati, 
se quell'amore vi rende costantemente felici, paghi; 
se ininterrottamente vi dà la pienezza, 
se trovate la felicità solo nella felicità degli amati, 
se date prima ancora che vi sia richiesto, 
e se l'amare è il solo compenso che gioiosamente vi ripaga di ogni fatica, di ogni sacrificio per gli amati, 
voi siete fra quelli che possono lontanamente immaginare cosa sia l'amore divino, 
quell'amore che a ognuno così parla:
 
Figlio mio, più che amare e suscitare l'amore, voglio che tu sia l'amore stesso .
Così, se è l'amore materno che può avviare un tale miracolo miracolo, ti farò madre ed io sarò tuo figlio.
Se è l'amore sensuale. allora non mi scandalizzerò ad esserti amante.
Se sarà l'amicizia a potere tanto, io sarà il tuo fedele amico.
Ma se sarà l'amore agli altri, anonimi, allora in ognuno di essi mi vedrai quale veramente io sono e comprenderai, essendolo tu stesso, l'essenza del vero amore






Come risolvere le ansie e i problemi quotidiani?





Liberate le vostre menti dai pensieri che vi assalgono e non vi lasciano. Spesso, quando siete assaliti da una preoccupazione e non sapete come risolvere il problema che ne è all'origine, vi arrovellate su questo e non lasciate che la vostra mente inconscia elabori quel problema, portate sempre e continuamente il problema nella vostra consapevolezza, cercandolo, girandolo, affrontandolo da ogni lato. Vi accanite cercando la soluzione, e più vi accanite più vi stancate, più impedite alle facoltà della vostra mente di risolvere quel problema.
Allora, accettate un consiglio: lasciate quel vostro problema, non permettete che vi assilli e vi tolga ogni altro interesse. Non permettete che non vi dia tregua, ma accantonatelo, affidatelo alla parte inconscia della vostra mente, sè che essa possa elaborarlo e, quando nuovamente lo prenderete in esame, la parte cosciente possa suggerirvi la soluzione migliore.

Quello che io vedo in voi è il soffermarvi si problemi, ed affrontarli a testa bassa, senza un attimo di tregua, volendoli risolvere subito, ad ogni costo. Anche se è un problema che riguarda il vostro stato interiore, l'intimo del vostro essere, può darsi che il trascorrere dei giorni segni un cambiamento di questo vostro intimo ed un mutarsi, quindi, degli aspetti del problema. Se poi è un problema d'ordine materiale, non serve volerlo risolvere ad ogni genere, deprimendosi, ma lasciate che il tempo lo decanti, lo mostri in tutti i suoi aspetti, che al momento possono sfuggirvi, e quindi affidatelo alla parte inconscia della vostra mente, sicchè, volta a volta che questi aspetti si mostrano e meglio si visualizzano, voi possiate meglio abbracciare tutto il problema, e meglio risolverlo, tranquillamente, serenamente.

Molto spesso, quelle che sono soluzioni inaspettate possono giungere da un momento all'altro; e quelle soluzioni che credete non vi siano, perchè non le vedete, vengono senza neppure darvi il preavviso. Perciò, cercate sempre di mantenere la vostra psiche distesa: non sovraffollatela, non sovraccaricatela, non sforzatela, ma lasciate che lavori in una giusta tensione. Quando non siete nelle condizioni psichiche adatte per risolvere quel problema che vi assilla, ponetevi prima nelle condizioni giuste. Calma! Non lasciatevi trasportare dai vostri problemi, ma siate voi quelli che li dominano, li affrontano; non siate pessimisti, nel senso di darvi per vinti e concludere che questi problemi non possono essere risolti.
Molto spesso la soluzione viene. Ma, se viene, viene sempre più facilmente nella tranquillità interiore, non nell'agitazione, in quel fermento che non fa altro che mettervi fuori strada, non fa altro che portarvi lontano da un terreno dove, invece, i problemi possono trovare la giusta fine.







L'ASSOLUTO-LA PRIMA CAUSA

(Estratto dal libro Dai mondi invisibili e La fonte preziosa - Edizioni Mediterranee)

 



"... Io sono fermamente convinto che l'uomo di media cultura di questa civiltà, con gli strumenti che ha a sua disposizione, cioè le sue conoscenze e la sua intelligenza, possa farsi un'idea di Dio che non sia un oltraggio alla ragione e che, al tempo stesso, sia aderente alla realtà.  ...


Siccome a Dio si fa risalire l'origine di tutto quanto esiste, prima di credere che Dio esiste, è lecito che io, uomo di questa civiltà, mi domandi se l'esistente ha avuto un origine, oppure non sia esistito da sempre; che parta cioè dalla posizione dei cosiddetti "atei" e mi ponga, come ipotesi di lavoro, che la realtà, nella quale siamo immersi, sia perfettamente materiale e che non sia stata "originata", cioè sia esistita da sempre.

E' chiaro che, in questo caso, non avrebbe una fine, perchè ciò che fosse esistito da sempre, non potrebbe cessare di esistere.  Io posso immaginare che una civiltà distrugga se stessa, ma non che la materia, posta come unica realtà esistente, cessi di esistere.

Se invece posso ragionevolmente credere che il cosmo, ossia l'insieme degli universi, finisca consumato dalla sua stessa esistenza, allora è chiaro che ha avuto un origine, e se ha avuto un origine è altrettanto chiaro che tutto quanto è esistito, esiste, esisterà, non è tutto in senso assoluto, perchè oltre quello esiste per lo meno una causa generatrice, cioè una causa che era prima che l'esistente fosse.  Vedremo poi che considerazioni fare su questa causa.


Allora so che le osservazioni degli astronomi moderni hanno portato alla constatazione che viviamo in un cosmo in espansione, cioè che gli universi si allontanano gli uni dagli altri e da un centro dello spazio (centro ideale ovviamente).

Sulla base di questi dati di fatto incontrovertibili, sono nate due principali ipotesi per spiegare l'origine e lo sviluppo del moto di traslazione degli universi; entrambe le ipotesi concordano sull'origine che sarebbe la conseguenza di una esplosione avvenuta in questo punto ideale, in questo centro ideale del cosmo.
Divergono invece sullo sviluppo.  Infatti, secondo la prima, la materia dei corpi stellari, quando questi hanno raggiunto la velocità "critica" di allontanamento dal  centro, si smaterializzerebbe e causerebbe così la graduale ma totale fine del cosmo astronomico.


Ora, per pochi istanti, consentitemi di tornare nei miei panni di disincarnato per affermare che quest’ipotesi è perfettamente azzeccata, come lo dimostra la formula einsteiniana secondo cui la massa di un corpo in movimento è uguale alla massa dello stesso corpo diviso la radice quadrata di uno meno il quadrato della velocità a cui è sottoposto il corpo diviso il quadrato della velocità della luce.
Einstein chiama questa velocità critica "velocità della luce".  Ponendo che la velocità a cui è sottoposto il corpo (nel nostro caso la velocità di traslazione di questi sistemi stellari che si espandono) raggiunga la velocità della luce, ossia la velocità critica, e vedete, voi matematici, che cosa succede alla massa del corpo in movimento secondo questa formula.


Detto questo chiudo la parentesi e me ne torno nei miei panni di incarnato a esaminare le ipotesi di cui dicevo.
Secondo l'altra ipotesi, invece, gli universi, raggiunto un punto nello spazio, invertirebbero la marcia e tornerebbero a concentrarsi nel punto ideale dal quale partirono e dove, a seguito di una nuova esplosione, nuovamente ripartirebbero e così via.

Ora, noi intanto possiamo osservare che il limite dove, secondo la prima ipotesi, la materia che compone i corpi stellari, si smaterializzerebbe, ovvero, nell'altra ipotesi gli universi invertirebbero la marcia e tornerebbero a concentrarsi nel punto ideale centrale, sarebbe in ogni caso un limite al cosmo, anche se lo spazio fosse di tipo euclideo, cioè infinito e indipendente dalla materia.  Dunque secondo l'una e l'altra ipotesi il cosmo sarebbe limitato e necessariamente sferoidale.


Ora, ciò che è limitato non può avere una durata illimitata, e questo mi basterebbe, perchè se il cosmo finisce, è chiaro che ha avuto un'origine e quindi una causa.  Ma io preferisco invece proseguire nell'esame delle due ipotesi per vedere se mi conducono ad una diversa conclusione.

Ripeto: secondo la prima, il destino del cosmo astronomico sarebbe la graduale ma totale fine per smaterializzazione; secondo l'altra sarebbe una sorta di moto perpetuo, di andirivieni dal centro alla periferia di questi corpi celesti, di questi universi.


Ora, io che mi reputo un ateo serio e coerente, debbo prendere in considerazione solo la seconda ipotesi, perchè, come ho detto prima, se ammetto la prima, ammetto la fine del cosmo, e quindi l'inizio, e quindi la causa.  Debbo invece vedere se posso ragionevolmente credere che il cosmo sia una sorta di perenne "pulsazione", un moto perpetuo di questi corpi celesti, oppure una trasformazione continua della materia che lo compone.  Il "Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma" sembrerebbe confermare questa ipotesi.


Ora, io so che il principio della conservazione della massa, dichiarato universalmente valido dalla meccanica classica, ed il principio della conservazione dell'energia (visto che si è scoperta la relazione che lega la massa all'energia) sono stati invece smentiti, direi in modo dirompente, dalla scoperta dell'energia atomica.  Non solo, ma anche più recentemente, dall'esame di certi fenomeni che avvengono nello spazio intergalattico.


Ora, la mia cultura non specialistica, di uomo di questa civiltà, non mi consente di addentrarmi con osservazioni scientifiche nell'esame di eventi cosmici, è chiaro; posso però capire, dai fatti con cui mi scontro tutti i giorni, un principio molto importante e cioè che per fare un lavoro ci vuole energia, e che nessuna macchina e nessun sistema non produrrà mai più energia di quanta ne consumi, altrimenti il moto perpetuo non sarebbe più un assurdo meccanico.     ...................


Allora, tornando alla mia teoria, mi pare che io possa pensare con ragione che se anche questo moto di va e vieni, dal centro alla periferia, dei sistemi stellari, si ripetesse indefinitamente, l'energia necessaria a questo moto, ancorché si generassi in qualche modo, magari a spese della massa della materia, non si rigenererebbe mai in misura totale, per cui a lungo andare sarebbe la stasi, cesserebbe il moto del cosmo.  Che poi questa stasi riguardi il divenire della materia o la materia in se stessa, per l'aspetto che mi sono posto del problema non fa alcuna differenza, perchè pervengo a concludere che se il divenire cessa, vuol dire che ha avuto un inizio ed una causa, e questo mi basta.

Tuttavia mi sembra più logico pensare che, se cessa il moto in seno al cosmo, non cessa solo il moto di traslazione degli universi, ma cessa il moto delle particelle e dei corpuscoli in seno alla materia e quindi cessa la materia e cessa lo spazio, emanazione della materia; e cessa il tempo, dimensione dello spazio.
E la dimensione immediatamente più sottile?

Noi abbiamo visto che il riassorbimento nel piano fisico consiste nella migrazione della materia dal centro alla periferia del cosmo; nel piano astrale il movimento è perfettamente l'opposto, dalla periferia l'energia si ritrae, si concentra nel centro ideale; il piano mentale è analogo al piano fisico: la mente si spersonalizza, si espande, raggiunge la periferia; il piano akasico è simile al piano astrale, cioè la rifrazione di sentimento in un unico punto del sentire; nel piano spirituale, il Logos, centro di questo piano che si espande, torna nella indifferenziazione.

Vedete come, in fondo, questi movimenti caratterizzino, poi, il destino degli individui: la mente che si spersonalizza, l'energia che si ritrae, il sentimento che si fonde in una comunione unica, il Logos che torna alla vastità del tutto.


Dopo aver detto tutte queste belle cose ho il dovere, però, di avvertirvi e di dirvi che per farle capire a voi, noi ci serviamo di immagini di comodo, salvo poi mettere in evidenza tutti i limiti.
Una di queste è il cosmo, presentato come un'enorme sfera contenente tutte le materie, di diversa densità, che costituiscono i piani di esistenza coesistenti senza possibilità di interferenze dannose, in un ambiente in qualche modo oggettivo.  Questa immagine serve molto bene a farci capire la coesistenza dei piani di esistenza, per farci capire come il grossolano stia bene, possa compenetrarsi con il sottile, e come i piani di esistenza non siano differenti ubicazioni spaziali, ma semmai, appunto, diverse identità materiali comprendenti tutte le forme di vita che sono proprie alle singole densità.

Tuttavia questa immagine non rende tutta la verità, anche se può sembrarlo. Se voi domandaste ad un'entità del piano astrale, che stesse ascoltando questa sera, dov'è, essa vi direbbe che è qui fra voi, in un dato punto della stanza, confermando, in qualche modo, con la sua asserzione, l'esistenza di uno spazio oggettivo, contenente, in tutti i punti della sua estensione, i diversi piani di esistenza.


Io vorrei, invece, farvi capire che se un'entità, rivestita di un corpo astrale, vi potesse vedere, ciò non sarebbe dovuto al fatto che divide il vostro spazio e quindi, potendo percepire il più sottile, necessariamente dovrebbe percepire il più grossolano, ma per un'altra ragione.  Infatti se voi, abitanti del piano fisico, aveste la possibilità di vedere a livello più sottile (poniamo il livello atomico) voi non vedreste più gli oggetti che vedete, ma vedreste unicamente un ammasso di atomi come un cielo stellato in una notte serena. E non basterebbe la diversa densità dello spazio, il diverso numero di atomi che costituiscono l'aria e gli atomi che costituiscono i corpi, a farvi percepire gli oggetti.   ......
Immaginate poi la visione nel piano astrale.  Con tutto questo intendo dire che se un'entità del piano astrale può percepire il piano fisico, non è, ripeto, perchè condivide lo stesso spazio, ma per un'altra ragione che, questa sera, non ci interessa esaminare.

Allora, questa immagine, di cui dicevo all'inizio, del cosmo come un'enorme sfera, se ha il pregio di farci capire che i piani di esistenza non sono tanti cicli o inferni danteschi, ha tuttavia il difetto di farci credere in uno spazio oggettivo.

Ora, noi abbiamo ricordato, questa sera, che qualcuno considera lo spazio come una sorta di emanazione della materia; ciò è molto se riesce a staccarsi dal concetto del vecchio spazio euclideo, quello della geometria o meccanica classica; ma non è abbastanza se, per capire che non esiste uno spazio vuoto, noi pensiamo a uno spazio tutto pieno di materia.


Allora vogliamo servirci di un'altra immagine di comodo, un altro esempio.
Supponiamo che voi siate in un ambiente lontano da questo, completamente al buio, e che siate collegati con questo ambiente -in quel momento perfettamente illuminato- con una macchina modernissima che riproduca, attorno a voi, in tre dimensioni, questa stanza.  Dopo qualche tempo voi avrete la netta sensazione di trovarvi qui, esattamente nel punto dove sarebbe collocato l'elemento sensibile per riprendere la scena.
Ancora una volta i vostri sensi vi avrebbero tratto in inganno; un inganno irrilevante nei rapporti fra voi e i presenti in questa stanza; ma un inganno che occorrerebbe svelare ed esattamente dimensionare nel momento in cui noi volessimo comprendere la realtà di ciò che è.
.........................
 
ESAME DELLA "PRIMA CAUSA"
... La causa del tutto, cioè la "prima causa" deve essere indipendente dal tutto. Non deve dipendere da alcunchè, cioè deve essere la prima causa increata. Altrimenti dovrei spostare il mio esame fino a trovare la causa esistita da sempre.
Ora, poichè siamo al di fuori del tempo e dello spazio, mi pare opportuna una precisazione, cioè sostituire l'avverbio di tempo "sempre" con un vocabolo più adatto, e questo è "eternamente", perchè nel linguaggio comune si confonde il significato di "eterno" con quello di "perpetuo" e di "perenne".  Noi intendiamo "eterno" senza tempo; mentre "perpetuo" è qualcosa che ha avuto un inizio e che continua in un supposto tempo senza fine; "perenne" che non si esaurisce mai.


Dunque la prima causa è "eterna".
Se è eterna, cioè senza tempo, è immutabile; perchè se mutasse avrebbe, in qualche modo, una successione.  Poi deve essere assoluta, cioè indipendente da tutto, altrimenti, come ho detto, non sarebbe prima causa.
Se è eterna, immutabile, assoluta, non si scappa, deve essere "una".  Se è "una", tutto quanto esiste, occupa tutto quanto esiste; allora è illimitata. 
Se è illimitata vuol dire che niente la limita e quindi posso affiancare a questo concetto, l'altro concetto: è infinita.  Se è infinita non esiste un punto ove essa non sia, quindi è onnipresente, e poichè è eterna, è "l'eterna onnipresenza".
Se allora è eterna, immutabile, assoluta, illimitata, infinita, onnipresente e se confronto i caratteri di questa "prima causa" con quelli universalmente riconosciuti, dalle filosofie e dalle religioni, a Dio, vedo che posso chiamare, questa mia "prima causa", Dio.
Se è onnipresente, è a contatto col tutto; niente, quindi, può esserle ignoto; allora è onnisciente.


Ora, se guardo con quanto ordine e intelligenza si svolge la vita naturale del creato, non posso non credere che altrettanto ordine ed equilibrio non sia in ciò che ne è stato la causa.  Per cui questa "prima causa" o Dio, deve necessariamente essere, perlomeno, tanto intelligente, e quindi sapiente, della totalità di ciò che ha generato.
E proprio il "generato" mi conduce a fare un'altra constatazione, e cioè che non posso pensare che tutto quanto esiste sia stato tratto dal nulla, ma che l'unica conclusione alla quale posso logicamente pervenire, è che Dio l'abbia tratto da se stesso, cioè che sia stato emanato.

Non solo, ma non posso pensare all'emanato come a qualcosa staccato da dio, che ne viva autonomamente, senza negare a Dio il suo carattere assoluto; perciò l'emanato deve rimanere in Dio.
E se è così, non posso pensare a Dio, completo dell'emanazione e a Dio privo della sua emanazione, come a due momenti diversi della sua esistenza, perchè negherei a Dio il suo carattere immutabile ed eterno.
Perciò l'emanato non solo deve restare in Dio, ma deve esservi sempre stato.
Se, allora, causa e causato sono una realtà unica, quell'inizio e quella fine che ho ricercato e ritrovato nell'esistente, non sono eventi oggettivi, sono illusioni, sono apparenze.


Allora quanto noi percepiamo non è la realtà; è l'apparenza di essa. Sono congetture che la nostra mente costruisce su informazioni che le pervengono dai sensi, ma non è la realtà di ciò che è.
La realtà è ciò che è, e non ciò che i nostri sensi ci fanno ritenere che sia.

Allora com'è conciliabile questa apparenza con una realtà diversa?
Certo deve esserci un modo comprensibile che concili questi due aspetti del problema, ed è proprio da questa spiegazione che devono scaturire i valori antropologici, e non il contrario.  Cioè  errato sarebbe, da valori umani, immaginare la realtà di Dio e su quello creare un'etica. E mi pare che proprio questo errore sia stato fatto.  Cioè partendo da ciò che i nostri sensi ci fanno ritenere realtà, gli uomini abbiano tratto tutte quelle concezioni del divino che ne fanno un essere antropomorfico, se non nell'aspetto, per lo meno nel comportamento.  Invece mi pare più proprio pensare che Egli sia la causa di tutto, come io ho postulato, ma ne ho dedotto che "causa" e "causato" debbono essere un'unica realtà.
Oppure lo posso immaginare come un ordinatore di un caos preesistente, ma ne ho dedotto che se fosse realmente così, ciò contrasterebbe con la sua natura immutabile ed eterna.
O lo posso immaginare come essere da cui traggono origine tutti gli altri esseri; ma se fosse realmente così, ciò contrasterebbe con la Sua natura infinita e indivisibile.

Allora cosa significa?
Significa che io posso immaginare Dio come più mi aggrada, come più mi fa piacere, ma per essere veramente tale, Egli non può che essere l'unica verità, l'unica realtà, perchè solo così Egli è immutabile, infinito, indivisibile, eterno, perfetto, completo, onnipresente, onnisciente, assoluto.
Questo è il Dio al quale posso credere senza far torto alla mia ragione."
 
 
DIVENIRE ED ESSERE
Il cosmo esiste in Dio in tutte le sue fasi di manifestazione, dall'inizio alla fine nell'eternità del non tempo; perchè, ripeto, un divenire che duri un tempo perpetuo, cioè che abbia avuto un inizio e non abbia una fine, è doppiamente impossibile: primo, un tempo senza fine non può esistere; secondo, perchè in ogni caso dovrebbe trattarsi di un reale divenire, che è inconciliabile con l'immutabilità di Dio.     .........
L'uomo deve sentirsi un "essere", non un "divenire". 

Voi pensate alle fasi successive della vostra esistenza come a delle promozioni in carriera, come un impiegato può passare e diventare capoufficio o direttore cambiando le sue mansioni, ma non il suo "essere".
Non si raggiunge mai un nuovo essere, col divenire.  L'essere è del "sentire", della coscienza; il divenire è del corpo mentale.
Voi potreste conoscere tutte le cose che conosce un Maestro, ma solo questo non vi renderebbe tali.

Solo il "sentire" appartiene alla realtà dell'essere". Così quando osserviamo un'esistenza nelle sue fasi, comprese dal selvaggio al superuomo, noi non osserviamo un selvaggio che "diviene", ma osserviamo le molteplici fasi di esistenza, cioè di "essere" di quella individualità, e poiché le fasi si susseguono dal più semplice al più complesso, voi dite che l'individuo evolve.   Noi pure lo diciamo, le parole sono le stesse, ma ciò che vogliono significare è profondamente differente.


Questo sarebbe meraviglioso in politica, ma siccome noi politici non siamo, quando parliamo vogliamo significare qualcosa; così quando diciamo che l'individuo "evolve", non intendiamo dire che l'individuo "diviene".  Un'esistenza individuale è già tutta completa in sè; niente può aggiungersi ad essa.  Così "evolvere" non può significare "crescere", ma può voler dire solo che i differenti "sentire" di quella individualità, si manifestano, vivono l'attimo eterno dell'esistenza.

Ciò è incomprensibile se si crede che l'Emanato si sviluppi in un tempo oggettivo, staccato da Dio, vivente una realtà senza tempo.
Ecco l'errore fondamentale che ha afflitto le teologie di tutti i tempi e di tutti i popoli. L'Emanato fa parte integrante di Dio, la sua esistenza fa parte dell'esistenza di Dio. Ecco perchè non vi può essere un reale divenire nell'Emanato.

Comprendo la vostra difficoltà ad afferrare questi concetti. Il mondo che voi osservate è un mondo che sembra in continuo divenire; la realtà che cade sotto i vostri occhi, vi pare una realtà che continuamente divenga, certo, ma dovete tenere presente che questo è quello che appare, non quello che è.

Ecco quello che andiamo ripetendovi da tempo: "La verità non è che voi osservate un mondo che diviene, ma è che voi avete una visione dinamica di un mondo statico. Non è la piante che cresce, che continuamente diviene, ma siete voi che ne osservate, in successione, le fasi di esistenza, voi che credete che le fasi già osservate non esistano più. Errore! Esistono nella eternità del non tempo."
Vedete, abbiamo cercato di farvi capire che la realtà è tutta diversa dall'apparenza, che il mondo che cade sotto i vostri occhi, è un mondo immobile, statico. Cerchiamo di farvi capire che la realtà non è "una" che diviene, ma costituita da "molte" che "sono".


"Allora", direte voi. "Dove nasce il movimento?"
L'illusione del movimento è originata dalla natura del "sentire individuale"; ma, per comprendere ciò, dobbiamo renderci conto, una volta per tutte, che noi non siamo "creati" nel senso generalmente accettato, cioè che Dio ci abbia tratti da se stesso a un dato punto o momento della Sua esistenza senza tempo. Credere a questo, è quanto meno singolare se si riconoscono a Dio i caratteri di assoluto, infinito, eterno, immutabile. Dunque noi esistiamo in Lui in eterno e possiamo considerarci suoi figli solo nel senso che facciamo parte di Lui, della Sua natura, che siamo conseguenza della Sua esistenza.
Solo in questo noi discendiamo da Lui.
Egli è la Realtà Assoluta. Egli è. Egli "sente". Egli è "sentire assoluto".

Che cos'è lo spirito?   E' l'essenza del tutto; è l'essere del tutto; è l'esistere del tutto; è il sentire del tutto; il sentire assoluto inteso come sentire dell'insieme comprendente il sentire delle parti.  Noi siamo il sentire delle parti, che è un sentire relativo e molteplice.
Il sentire della parti nasce dall'illusorio frazionamento dell'Uno Assoluto nei molti.
Perchè illusorio?   Se questo frazionamento fosse reale, il tutto non potrebbe esistere come Dio, allo stesso modo che un oceano, considerabile come un insieme di gocce, non esisterebbe più, come oceano, nel momento che in queste realmente lo si trasformasse.
D'altra parte se non esistesse la molteplicità, il Sentire Assoluto non sarebbe tale, ma sarebbe un sentire unico e solo monolito.

Ma come potrebbe mantenersi l'unità di Dio, in questa molteplicità, se ogni sentire, dal più semplice al più complesso, non fosse unito all'altro?  E come potrebbe realizzarsi questa unione, questa continuità, se non col fatto che il sentire più complesso contiene il sentire più semplice?
Serie di sentire, dal più semplice al più complesso, sono le individualità. Ma poichè il sentire più complesso contiene il più semplice, nell'individuo, inteso come momento di questa serie, cioè noi quali ci sentiamo, nasce l'illusione di provenire "da", di tendere "a", cioè l'illusione dello scorrere.  Ma poichè il sentire più complesso è il Sentire Assoluto, che riassume e comprende in sè ogni sentire fino ai più semplici, questa illusione sfocia nella realtà di Dio.


Noi, quali ci sentiamo, quali crediamo di essere, esistiamo solo nell'illusione della separatività.
In realtà esiste solo Lui. Ma poichè Lui è Sentire Assoluto, che comprende e riassume in sè ogni sentire, ciò garantisce che la nostra esistenza non finisce col finire dell'illusione.

Ripeto: il fatto che il sentire più complesso comprenda il più semplice, genera nell'individuo l'illusione di provenire "da" e di tendere "a", e quindi l'illusione del divenire; ma è lo stesso fatto che realizza l'unità del tutto unendo, come un filo, tante perle in collane; sentire elementari, corrispondenti a sensibilità di piante ed animali, a sentire più complessi, corrispondenti a visioni limitate e circoscritte della realtà, come sono nell'uomo; e poi a sentire sempre più complessi, corrispondenti a visioni sempre più ampie, e poi a "comunioni" sempre più estese, fin'oltre l'ultimo scorrere, l'ultima separazione: l'identificazione in Dio.
Come il selvaggio non diviene santo, ma l'uno e l'altro fanno parte di una stessa individualità, così noi, quali ci sentiamo, quali crediamo di essere, non comprenderemo mai Dio, ma facciamo parte di una esistenza che in Lui si identifica.
..............

Come spiegare più chiaramente ciò, Padre? Questo Tuo essere tutti noi che ci conduce a riconoscerci in Te? Come dirlo se nel momento che Ti chiamo o quando Ti penso, non chiamo Te, non penso a Te, perchè Tu non sei quello che riesco a pensare?
Le parole non servono perchè appartengono ad un mondo che si fonda su ciò che sembra; e Tu sei!
La nostra mente ci fa credere ad un io separato e Tu sei un Tutto-Uno-Assoluto. Il nostro sentimento ci assoggetta all'illusione del trascorrere, e Tu sei la realtà che non conosce sequenza.
Come avvicinarci a questa realtà, se non abbiamo il coraggio di rinunciare a credere che l'io sopravvive?
Noi, quali ci sentiamo, non siamo immortali; la nostra consapevolezza finisce per lasciare posto ad un'altra più grande consapevolezza; fino a che sentiamo che Tu solo esisti, che Tu solo sei la realtà.
Ma neppure questo è l'ultimo sentire; è l'ultimo dell'illusione. Oltre è l'eterna realtà del Tuo essere, di fronte alla quale solo il silenzio è giusta voce."



LA MORALE IDEALE


(Estratto dal libro Oltre l'illusione - Edizioni Mediterranee)
 

Kempis - Non è una scoperta sensazionale accorgersi che l'uomo concepisce la realtà unicamente in chiave umana. Della natura si vede il capolavoro, del mondo in cui vive il sovrano; se ama gli animali è perché attribuisce ad essi caratteri umani. Se ammette l'esistenza, su altri pianeti, di forme di vita individualizzata, la massima concessione che è disposto a fare in tema di diversità da se stesso, è nell'aspetto di quegli esseri. 
Sì, in linea di massima è propenso ad ammettere altre civiltà planetarie più evolute della sua, ma i figli di quelle civiltà sono dei se stessi ingigantiti. Per non parlare, poi, dell'aspetto mostruoso che invece attribuisce a chi immagina di avere una natura difforme da quella del genere umano, genere di cui vede se stesso prototipo esemplare. Perfino Dio è immaginato dall'uomo simile a sé: nella migliore delle ipotesi è immaginato un « buon uomo ».
Questo modo di concepire la realtà, assume una natura così viscerale che raramente l'uomo riesce ad accettare ciò che si discosta dal suo modo di vedere il mondo. Non crediate che. stia condannando questo fatto, sto semplicemente rilevandolo. Rilevando cioè qualcosa che ha una ragione precisa, fondata, nell'ordine generale delle cose, come ho avuto modo di dire anche ultimamente.
Ma solo l'Assoluto ha valore assoluto e se il riportare tutto in termini umani produce l'effetto d'interessare e far vibrare l'uomo, giunge il momento in cui l'umano deve uscir fuori dalla propria crisalide, dal proprio minuscolo mondo, ed aprirsi all'immensità che l'attende.
 
GIOVANNI- Uscir fuori dal proprio mondo, per l'uomo, al massimo può significare avere un comportamento altruistico; a questo vogliono ricondurre gli insegnamenti di altruismo delle Guide spirituali dell'umanità: « non danneggiare, aiutare, amare i propri simili ». Naturalmente, per rendere accettabile, dall'uomo, un discorso che contrasta con il suo modo di concepire la realtà, è necessario porlo in chiave egoistica; ossia è necessario affermare che il comportamento altruista implicitamente comporta un premio. 
L'adattamento della dottrina a se stessi avviene automaticamente, per una sorta di compromesso, ed è condizione essenziale all'accettazione della dottrina. A voi forse questa condizione può suonare poco morale, ma se così è lo è perché avete posto attenzione ad una morale un tantino più avanzata, una morale in cui i comportamenti altruistici non sono determinati da mire egoistiche, ma sono la logica conseguenza di un modo di concepire la società che solo una ideologia retrograda e crudele può affermare essere costituita da individui che non abbiano tutti gli stessi diritti-doveri. 
Vi assicuro però che quello che a voi, almeno concettualmente, sembra un giusto modo di concepire l'altruismo - ossia ritenendolo veramente tale quando prescinde da ogni forma di ricompensa - per altri è ancora inconcepibile. L'ideale morale dell'uomo è ben lungi dall'essere superato.
 
Kempis - Se si passano in rassegna le varie morali per scoprire quelle più elevate ed ispirate, si osserva ch'esse sono ancora quelle delle antiche religioni, considerando incluse nei ceppi di origine le differenziazioni più recenti. Se l'esame dalle antiche religioni si sposta alle più recenti associazioni, congreghe, organizzazioni aventi intenti moralisti, si nota che il cambiamento è solo esteriore. Per esempio: l'uomo anziché concepito da Dio, può essere immaginato financo un'inseminazione degli extra-terrestri, ma tutto questo non significa "cambiamento della morale". 
Le espressioni più alte della morale sono ancora quelle tradizionali. Badate bene, intendo dire che le concezioni ormai acquisite come scontate, sono morali cosi' umane che, se in tal modo fossero state concepite sin dall'origine, si direbbero morali concepite da uomini, più che per gli uomini. Pare che nella scuola della vita il potenziale d'istruzione dell'uomo, in fatto di morale, non conduca oltre un'istruzione media; almeno a livello generale, non v'è possibilità d'istruzione superiore.
 
GIOVANNI - Anche recentissime organizzazioni a carattere mistico-filosofico, insegnano una morale che nello spirito va poco oltre quello tradizionale. Ogni essere è concepito in chiave di avere: avere degli attributi spirituali come il materialista ambisce beni materiali, avere un'evoluzione spirituale che consenta un passo avanti nella gerarchia degli esseri. E per quanto concerne i rapporti con i propri simili, lavorare per la fratellanza degli uomini, per la loro spiritualizzazione. Tutte cose encomiabili ,se non fossero concepite in chiave di guadagno personale nell'evoluzione spirituale.

Come vi abbiamo detto, l'uomo difficilmente recepisce ciò che si allontana dal suo intimo essere; quando accetta una concezione, immediatamente cerca di adattarla a se stesso. Se abbraccia la causa del bene in senso morale, allora diventa un partigiano, fa del bene una parte contrapposta ad altre; cerca di fare proseliti, combatte o comunque avversa chi non la pensa come lui. Questo impegno di se stessi è preferibile all'abulia, al « non mi interessa », in ogni campo; ma è sicuro indice che non si è superata la dimensione umana.
 
Kempis - Per superarla e necessario porre attenzione ad una nuova concezione di se stessi e della realtà: ossia, ad una nuova morale, ammesso che il termine « morale » sia ancora abbastanza indicativo per significare il raggiungimento di una  « nuova natura ».
Se non si pone attenzione ad una Verità, essa non entra mai a far parte dell'intimo essere. E' ora il momento di sottrarsi all'imperiosa tendenza di concepire la realtà unicamente in chiave umana.
La stessa scienza vostra - particolarmente la fisica per quanto attiene al mondo delle particelle subatomiche - avverte la necessità di superare certi postulati, certi schemi di pensiero, certi modelli ritenuti invalicabili.
Questa necessità ha fatto affermare a qualcuno che non è possibile dare un senso alla realtà sulla base delle sole ricerche scientifiche: quanto più ampiamente e dettagliatamente la si osserva, tanto più essa appare priva di significato. Lo spettacolo che si svolge dinanzi agli occhi dello scienziato, acquista un senso per il solo spirito che l'osserva. La conclusione di questa affermazione è verissima. 
Tuttavia ciò che sembra non avere senso, ha proprio lo scopo di condurre a quella conclusione soggettiva; e se la conclusione appare troppo fideistica, aggiungo: prescindiamo pure da essa, ma allora, in termini razionali, non si può considerare privo di significato ciò che non si riesce a capire. Questo è presuntuoso, per non dire strumentale, al fine di ricondurre la scienza dalla parte del materialismo dopo che aveva dato evidenti segni di volersene staccare.

Io vorrei chiarire bene che cosa intendo: se si prendono dieci carte da giuoco, di un seme qualsiasi e, dopo di averle ordinate dall'uno al dieci, si mischiano e si scoprono, nessuno si aspetterà di trovarle ordinate nel modo iniziale. Se ancora si mischiano e di nuovo si scoprono,  ben difficilmente saranno in uno dei due ordini precedenti. Questo fatto non autorizza ad affermare che, in natura, l'ordine tende a diventare disordine. Se mai si potrà dire, più genericamente, che « uno stato » tende a trasformarsi in uno stato « diverso »; l'ordine è la disposizione secondo un certo criterio, il criterio appartiene alla dimensione umana ed ha un suo innegabile valore, ma è un valore relativo: un valore che serve per capire solo fino ad un certo punto. Per andare oltre è necessario trovare altri termini di raffronto.
 
GIOVANNI - Noi non vogliamo fare di voi degli esseri che non vivono secondo la loro realtà, che vivono in modo difforme dalla loro natura e dal loro « sentire ». Semplicemente vogliamo richiamare la vostra attenzione sul fatto che la dimensione umana, la condizione umana, non può essere assunta a chiave di lettura del Cosmo intero. E, in termini di morale, che esistono altre morali ben più avanzate della vostra.
Prendiamo in esame un precetto classico. Dice Matteo 6-24:
« Quando tu fai l'elemosina, non farla strombazzando dinanzi a te nelle sinagoghe e per le strade, come fanno gli ipocriti per avere gloria agli occhi degli uomini. In verità ti dico che quella è la loro ricompensa. Tu invece, quando fai l'elemosina, ignori la tua sinistra ciò che fa la destra, affinché la tua elemosina resti nel segreto ed il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà ».
Si afferma cioè che lo scopo di fare l'elemosina non è quello di mettersi in evidenza agli occhi degli uomini, di avere una sorta di riconoscimento, di ricompensa umana; e questo e un primo ideale morale. Tuttavia il versetto promette un altro genere di ricompensa: quella spirituale. Perciò la questione è ancora nei termini: « do, ma ricevo ». Un modo di purificare questo concetto, o il concetto in generale dell'aiutare, è quello di accettarlo prescindendo da ogni forma di ricompensa personale; l'aiutare per la solidarietà che gli uomini debbono avere fra di loro, a fondamento della quale sta - per chi non creda ad altro- la comune condizione umana.
Invece l'uomo, per rendere meno rarefatto questo concetto, per farlo più a sé assimilabile, vi apporta dei correttivi come, per esempio, l'effettiva necessità d'aiuto da parte di chi si vuol beneficare, oppure la certezza che l'aiuto sarà efficace o comunque recepito. Ma il concetto, nella sua originaria purezza significa: aiutare anche quando si sa che l'aiuto non serve.
A voi forse tutto questo può sembrare ridurre il precetto a semplice e freddo dovere proprio; può sembrare un togliere l'amore al prossimo dal concetto di aiutare, amore che è ispiratore di ogni forma di vero altruismo. Vi assicuro che non è così. In questa concezione dell'aiutare, l'amore assume forma imper-sonale, amore per il Tutto, amore privo di passionalità: il concetto del vero amore.
 
Kempis - Un tale sentimento fluisce quando si è compresa la vita, la propria unicità e la natura soggettiva della propria esistenza. Non a caso infatti l'uomo scopre la soggettività di ciascuna esistenza individuale, a mano a mano che è capace di sottrarsi all'imperioso modo di concepire la realtà unicamente in chiave umana, cioè, allorché è più pronto spiritualmente. Moltissimi sono gli « esseri »; questa molteplicità, tuttavia, non pregiudica l'unicità; ciascun « essere » è diverso, unico.
Già questa riflessione dovrebbe far pensare al fatto che l'uomo, in fondo, è solo. Una solitudine non intensa nel senso umano, ma in altri sensi, fra i quali, per esempio, nel senso che l'uomo è solo di fronte alla Realtà, perché solo lui può comprenderla essendo la comprensione del Reale un fatto squisitamente individuale.
Dunque non solitudine come mancanza di compagnia. L'uomo, anche il più accompagnato, è sempre solo; gli esseri che lo circondano, per lui diventano suo prossimo solo se egli è capace di sentirli così. Solo se egli dà loro vita e sentimento, altrimenti sono degli oggetti, delle immagini.

I concetti delle varianti e della non contemporanea percezione di una situazione nel mondo della percezione da parte di «sentire » di grado diverso, non sono concetti originali perché fanno dell'uomo un solitario.
Al di là della Verità di questi concetti, l'uomo è solo perché solo lui può dare vita e sentimento e calore umano al mondo di immagini che lo circonda. Ecco che cosa significa che l'amore è premio di chi ama. Che una situazione del mondo degli accadimenti sia percepita simultaneamente da tutti i protagonisti, non annulla il fatto che ciascuno di essi la percepisce diversamente, isolatamente, solitariamente. Questo stato di cose - intuito dall'idealismo soggettivo - ha lo scopo di realizzare la comunione degli  « esseri» solo là dove essa è « creazione » e non distruzione: cioè nel mondo del « sentire ». 
Nel mondo della percezione, l'uomo, credendo di poter influire arbitrariamente nella vita dei suoi simili, attraverso a molte incarnazioni e moltissime esperienze, acquista rispetto e senso di responsabilità nei loro confronti. Poi scopre che al di là dell'apparenza è solo, e nonostante ciò conserva intatto il senso del suo dovere. Quando ha capito che le proprie limitazioni rendono divisi, diversi, soli e ciò nonostante ama il Tutto di un amore impersonale e privo di passionalità, allora trascende la condizione umana, non più a lui necessaria, e vive unicamente della Comunione dei Santi.
Ascoltate reverenti.
 
« Perciò tu avrai capito la vita non quando tu farai il tuo dovere in mezzo agli uomini, ma quando lo farai nella solitudine.
Non quando, pur raggiunta la notorietà, potrai avere una condotta esemplare agli occhi degli uomini, ma quando l'avrai e nessuno lo saprà, neppure te stesso.
Non quando tu farai il bene e ne vedrai gli effetti, ma quando lo farai e non ti interesserà avere gratitudine, né conoscere l'esito del tuo operato.
Non quando tu potrai aiutare efficacemente e disinteressatamente, ma quando aiuterai pur sapendo che il tuo aiuto a nessuno serve, neppure a te stesso.
 Non quando tu ti sentirai responsabile di tutto ciò che fanno i tuoi simili, ma quando conserverai intatto il senso della tua responsabilità, pur sapendo d'essere l'unico uomo al mondo.
Non quando tu avrai compreso che tutti gli esseri hanno gli stessi tuoi diritti, ma quando tratterai l'essere piu' umile della terra come se fosse Colui che ha nelle Sue mani le tue sorti.
Non quando tu amerai i tuoi simili, ma quando tu stesso sarai i tuoi simili e l'amore ».









LA MALATTIA



(Estratto dal libro La voce dell’ignoto- Edizioni Mediterranee)






Che la pace sia con voi e con tutti gli uomini, figli cari.
La malattia, o la presunta tale, è uno dei problemi che coinvolgono l'uomo e lo affliggono nella sua vita terrena.
L'argomento meriterebbe una trattazione vastissima, però possiamo svolgere delle semplici considerazioni che possono chiarirci le idee e renderci attenti a questo problema fino a vederlo nelle sue giuste dimensioni; senza, peraltro, approfondirne ed esaminarne i moltissimi aspetti.
A questo scopo, Francois, il Maestro Veneziano ed il Maestro Orientale vi parleranno proprio di questo argomento e vi diranno cose che possono servire, ce lo auguriamo, ad illuminarvi.
                                                                                                                                                           DALI
 
Riscuotere la fiducia di un proprio simile fa in ogni caso e a tutti piacere, ma non sempre e non tutti si sentono in dovere di non deludere la fiducia che viene accordata; mentre è senz'altro doveroso, per chi è oggetto dell'altrui stima, apprezzarla e tenere nella dovuta considerazione quello che è un tributo spontaneamente offerto, perchè così si può definire la fiducia.
L'immagine più bella della fiducia che un essere può esprimere è quella del bambino che si rifugia nelle braccia della madre, e nell'adulto è quella di chi si rivolge al medico.
Cari medici, ogni volta che un malato si rivolge a voi tenete presente questo aspetto della relazione che si stabilisce; tenete presente che si tratta di una creatura comunque sofferente e bisognosa, che si abbandona a voi come il fanciullo nelle braccia della madre in cerca di protezione, aiuto e sollievo. E' una creatura che si affida a voi perchè è incapace di risolvere quel suo problema e, se l'accettate, il suo problema diventa il vostro.

D’altra parte, come potreste non accettarla quando avete scelto di esercitare l’arte medica, e perciò non avete scelto una professione bensì una missione, perchè di questo si tratta quando l'attività che si svolge è diretta a persone e non a cose ed oggetti.

Certo che talvolta, obbiettivamente, il medico non può fare a meno di deludere la fiducia che il malato ripone in lui, perchè la medicina non gli mette a disposizione -non avendoli- rimedi validi a guarire quell'infermità che affligge il paziente; in quel caso il discorso sul tradire la fiducia del malato si sposta dalla figura del medico alla validità della scienza medica, ma si sposta solo quando il medico può veramente dire di avere la coscienza a posto; e lo può dire quando ha impegnato tutto se stesso nella ricerca del rimedio; quando, umilmente riconosciuti i propri limiti, non li ha nascosti al malato e lo ha indirizzato a chi ha una maggiore conoscenza della sua; ma soprattutto quando è consapevole dell’importanza della sua figura non già per estorcere onorari da capogiro bensì per il senso di responsabilità che conseguentemente deve avere ed animare la sua opera.
Chi prende la necessità degli altri in generale, ed in particolare le loro malattie, come una fonte di esose ricchezze, non ha niente di diverso da chi estorce denaro con minacce di morte.

Dicevo della validità della medicina. Invero, se la medicina in generale è la scienza per conservare o restituire la salute all'uomo, è molto più ampia di quella che ufficialmente si arroga un tal nome. Ed in effetti molte sono le arti e le scienze alternative, per il mondo occidentale, che promettono la sanità: l,agopuntura, le cure semplici, l'allopatia, l'omeopatia, la pranoterapia, lo yoga, l’ipnoterapia, eccetera eccetera; quelle che si basano su particolari alimentazioni, altre che non si può fare a meno di definire amene, come quella che insegna a parlare agli organi ammalati del proprio corpo, da consigliare particolarmente —dico io— al malato che soffra anche di solitudine. Un quadro divenuto talmente caotico che non converrebbe neppure prendere in considerazione, se non presentasse reali guarigioni.

Allora, come comportarsi di fronte a tante discipline che promettono la salute quando si è nella necessità di fare una scelta? E qui il discorso torna sulla fiducia, elemento di primaria importanza per riuscire in qualunque cosa, perchè la psiche ha una rilevantissima influenza non solo nell'attività volontaria del corpo ma anche in quella involontaria, includendo in ciò i meccanismi biologici.

Io sinceramente la fiducia la riporrei in primo luogo nella medicina ufficiale del mondo occidentale, che quando fallisce è in alta percentuale perchè è stata male applicata. Certo, quando si dichiara impotente, o quando il malato, per una sua condizione speciale, non tollera i rimedi che essa pone a disposizione, tanto da ricevere un danno peggiore del male; o quando si tratta semplicemente di conservare la propria salute; allora non si debbono disdegnare le altre discipline che, come ho detto, vantano risultati positivi e, non di rado, risolutivi di casi disperati.

Perchè dare la fiducia in prima istanza alla medicina ufficiale, salvo le eccezioni di cui dicevo?
La malattia ha sempre una componente psicologica rilevantissima, per cui ogni medico dovrebbe essere un bravo psicologo. Sulla componente psicologica presente a monte di ogni malattia si aggiunge un'altra componente della stessa natura: quella di chi sa di essere un malato, costituita dallo stato di sofferenza fisica, dalla paura di non guarire dall,impedimento limitativo dato dall'infermità, dalla diversa situazione che si crea, e via via.
E' vero che la cura ideale non deve limitarsi a tamponare gli effetti, ma rimuovere soprattutto le cause; ed è altrettanto vero che la medicina scientifica tampona solo gli effetti, anche quando crede di essere risalita alle cause, perchè le cause sono sempre psicologiche essendovi, a monte della malattia, quanto meno la mancanza di quello stimolo di reazione che scatena le difese naturali dell,organismo; però, quando la causa ha già somatizzato l’effetto occorre riparare subito il danno ricevuto dall’organismo, e niente v’è di più immediato, a questo scopo, della medicina scientifica, comprendendo in ciò anche la chirurgia.
 Le cause dell’ulcera gastrica sono risaputamente di natura psicologica: stati ansiosi, temperamento introverso e sospettoso, eccetera eccetera; però quando l’ulcera ha raggiunto uno stato di gravità che può farla degenerare, è inutile cercare di rimuovere le cause: occorre subito tamponare l’effetto con una cura chirurgica. Sarà, di poi, da eliminare la causa acciocchè la malattia non si riproduca. Questo naturalmente è un esempio radicalizzato, tuttavia, anche nei casi più sfumati, il principio rimane valido.
                                                                                                                                                     FRANCOIS
 
Amici, il discorso che vi rivolgiamo vuol essere più generale e non riguardare solo coloro che oggettivamente hanno problemi di cattiva salute. E' un discorso che principalmente è rivolto a tutti quelli che hanno deciso che non stanno bene.
Il  primo sintomo che volge a far concludere di essere ammalati è un senso di malessere generale. Tale sintomo è immediatamente interpretato come un segno, un avviso che c'è qualcosa che non funziona nel proprio corpo. L’interpretazione di chi prova un tale malessere non lascia alternative, mentre in effetti l'alternativa c’è, e come! ed è costituita dal fatto che il malessere, che è originato dal vivere una situazione non gradita, molti lo attribuiscono ad una malattia del corpo mentre ha origine psichica.
Cosicchè la malattia immaginaria, formalizzata con il rito delle visite dal medico, ed anche la malattia reale, diventa una giustificazione per evadere la realtà, perfino il semplice senso di stanchezza è un modo di ribellarsi e non fare qualcosa che si dovrebbe e non si vuole fare; perchè quando si ha da fare qualcosa che piace, non si sente stanchezza.

Allora, quando vi sentite un malessere, non date per scontato che siete ammalati; esaminate le vostre situazioni familiari e di lavoro o di relazione, e in una percentuale alta troverete lì la causa del vostro malessere originato da scontentezza. Non solo, ma anche nelle situazioni senza problemi la psiche gioca lo scherzo di farvi sentire scontenti per vari motivi: per esempio, per noia.
Moltissimi sono coloro che non si sentono attivi se non hanno qualche motivo di preoccupazione. La preoccupazione, per loro, diventa stimolo per avere interesse alla realtà.

Moltissimi sono anche coloro che colmano il vuoto interiore del loro essere creandosi una malattia. L'incapacità di pensare, la mancanza di interessi, di vita interiore e di attività nel loro mondo che li soddisfi, li lascia —per loro difetto — in uno stato di vuoto che essi cercano di colmare, inconsapevolmente, inventando una malattia, cioè qualcosa a cui pensare, che dà da fare, che suscita l’attenzione degli altri su di sè, che non li fa languire nell'inattività.

Allora, amici, quando vi sentite un malessere e non v'è una disfunzione organica, la causa è da ricercarsi nella sfera psichica. La prima cosa da fare è quella di non cullarsi nel vostro malessere ma di reagire facendo forza su voi stessi, imponendovi qualcosa che vi distragga e vi impegni: per esempio, sottoponendovi ad un esercizio di ginnastica. Il corpo fisico ne ritrarrà beneficio ed anche la psiche sarà ben adattata, sarà ben disposta da quel rito che porta a nuovi interessi e nuove relazioni.
                                                                                                                                 MAESTRO VENEZIANO

A te, fratello caro, che invece sei veramente ammalato nel corpo, raccomandiamo egualmente di reagire, di non far pesare sui tuoi cari la tua malattia più di quanto già possa pesare.
Non limitarti più di quanto la tua stessa malattia oggettivamente ti limita, non temerla dandoti per vinto da essa, ma sfidala!
Se cadi nella disperazione, ti chiudi alla possibilità di ricevere qualsiasi aiuto.
Non pensare di vivere un'esperienza negativa; trai da essa quel motivo di cambiamento per il quale si è determinata e resa necessaria.
Il tuo vero bene non è la semplice guarigione ma la tua giusta reazione, la trasformazione che essa deve operare in te. Perciò ricorda che il vero aiuto non è tanto quello di guarirti, quanto quello di aiutarti a comprendere.

Non sentirti abbandonato e solo; ripeti mentalmente con me questo mantra, in forza del quale puoi meglio impiegare le doti che la natura ti ha assegnato per la sana attività dei tuoi corpi:
 “ Io sono una cellula di un immenso organismo nel quale mi sento illusoriamente distinto e separato, ma dove in realtà sono parte integrante del Tutto.
In questo immenso organismo io vivo in simbiosi con ogni essere e sono investito da una corrente vitale che ha come fine il perpetuarsi della vita sempre pronta a manifestarsi.
In una tale esplosione di vita, la malattia è contro il fine della natura ed è quindi un fatto che la natura stessa combatte.
Io non devo perciò sentirmi rifiutato ed abbandonarmi alla malattia, ma reagire con tutta la mia volontà. In tutto ciò non sono solo, la natura stessa mi aiuta con la sua inestinguibile corrente vitale che tende a conservare la vita. Infatti, lo stato di bisogno di ogni essere è percepito dall'intero comune organismo, che gli indirizza energie riequilibratrici insite nello stesso moto vitale.
Sta dunque a me aprirmi a queste energie e goderne tutta la potenza.
La forza che io devo evocare non deve giungere da un punto remoto del cosmo ma da dentro me stesso, quindi è a mia portata. Se in me essa è assopita, io voglio che si liberi ed agisca costantemente.
Impartisco questo ordine alla mia mente, che se è capace di farmi ammalare, lo è altrettanto di farmi guarire, sfruttando la forza vitale della natura.
Io domino la mia mente e l’asservo a me stesso. Conosco i suoi tranelli, le paure che mi infonde per prevalere sulla mia volontà ed agire a suo capriccio.
Io sono il suo sovrano e l’asservo al mio volere. Essa mi ubbidisce e fedele lavora per me con tutte le sue possibilità conscie e inconscie. Anche quando la mia attività cosciente è volta ad altro, la mia mente inconscia continua ad alimentare la mia guarigione, attimo dopo attimo.
La mia mente è uno strumento prezioso: io voglio che sia la mia forza e la mia chiarezza. Perciò le impedisco di creare ombre che mi torturano e angosce che mi annientano.
E tu, malattia, non mi incuti alcun timore. Che cosa puoi fare di più che far morire il mio corpo?
Niente può farmi cessare di esistere.
Morire è rinascere.
La morte non esiste”.
Om mani padme aum
                                                                                                                                  MAESTRO ORIENTALE


Filosofando: Filosofando: FilosofiaNel consiglio dei grandi gio...

Filosofando: Filosofando: FilosofiaNel consiglio dei grandi gio...: Filosofando:FilosofiaNel consiglio dei grandi giorni si ...: Filosofia Nel consiglio dei grandi giorni si pose la domanda: "quale fu il...



ETERNITA' DELLA COSCIENZA DI ESISTERE






(Estratto dal libro La fonte preziosa - Edizioni Mediterranee)


 Ogni uomo, nel corso della sua vita, si chiede anche reiteratamente se la morte del suo corpo trarrà seco quell'io sono che è dimostrazione della sua esistenza.


La paura della propria morte è un coacervo di timori, apprensione per l'ignoto, orrore che la morte in sé rappresenta, panico al pensiero che sia dolorosa, peritanza arrecata dall'istinto di conservazione, sgomento per dover lasciare il proprio mondo, ma soprattutto terrore del nulla, cioè che cessi quell'io sono, quel sentirsi d'esistere che proviamo vivendo e che crediamo sia attributo proprio e particolare della vita del corpo.


Se si riuscisse a trovare la certezza che l'io sono, che si crede faccia esistere, non cesserà, forse una buona dose dello spavento che la morte infonde vorrebbe meno.


Chi vuol vederci chiaro, intanto, deve tener presente che la coscienza di esistere, il sentirsi d'essere, non è legato all'io, essendo il senso dell'io il prodotto delle limitazioni e di un conseguente errato modo di concepire la Realtà.


Il sentirsi di esistere non viene mai meno.
Chi, con un rapido esame, si volge indietro a cercare nel suo passato una conferma a questa affermazione, può restare perplesso. Nel sonno, la coscienza di esistere viene meno? Certamente no; questo lo affermano anche gli studiosi della materia. Il fatto che certi sogni si dimentichino subito, al rientro nello stato di veglia, e che quindi nel ricordo vi sia una lacuna che può dare l'idea di una vacanza del senso di esistere, non significa che un vuoto vi sia stato effettivamente.
Sapreste ricordare nei particolari che cosa avete fatto tre anni fa?
Probabilmente non lo ricordate, eppure lo avete vissuto, eppure il vostro sentirvi esistere  era presente anche allora, in quella porzione della vostra esistenza che, ora, costituisce un vuoto nel ricordo.


Nel coma, invece, come nella anestesia totale, come nel cosiddetto riposo dell'Ego, sembrerebbe che effettivamente la coscienza d'esistere venisse meno per un certo tempo. Tuttavia la spiegazione è facile:  il tempo oggettivo non esiste; quella che sembra una soluzione di continuità nel sentirsi di esistere dell'addormentato, per lui non lo è affatto; lui sente di esistere senza interruzione quello che per gli altri è un tempo lunghissimo; per lui è come andare a capo nella lettura, come voltare una pagina. Sono gli altri che vivono situazioni, fotogrammi, episodi che lui non vive. Il suo sentirsi di essere non si arresta in attesa che gli altri vivano ciò che debbono vivere, ma scorre nelle successive situazioni che deve sperimentare senza arresti, senza soluzione di continuità, sia che gli altri contino un'ora o un giorno o un anno.


Questa esperienza, in qualche modo, la si può costatare anche col sonno naturale del corpo fisico. Talvolta vi sembra di aver dormito un attimo e invece sono passate ore. Talaltra sembra di aver dormito lungamente ed invece si è trattato di un breve tempo. La differente valutazione è dovuta al fatto che nel primo caso si è dormito profondamente, cioè senza ricordare i sogni fatti; nel secondo, invece, il ricordo del sogno e più netto del consueto. Tutto ciò ci conferma che il tempo, oltre ad essere un fattore relativo sul piano della fisicità, è anche estremamente soggettivo sul piano individuale, cioè ognuno ha la cognizione del trascorrere del tempo solo in funzione della successione degli avvenimenti che percepisce, veri o sognati che siano.


Allorché cessa la percezione - comprendo in questo termine anche la ricezione o il ricordo dei pensieri - cessa l'idea del trascorrere del tempo ed il sentirsi di esistere scorre senza soluzione di continuità, saltando a pie' pari la durata degli avvenimenti di cui non si è avuta percezione proprio perché non v'è durata se non v'è avvenimento.


In realtà non esiste una storia che con un tempo oggettivo scorra, distribuendo con la cadenza temporale a ciascuno le proprie esperienze:  ma la storia assume l'aspetto di evento oggettivo proprio per la parte in comune di tutte le storie individuali che essa rappresenta. E se, nella serie degli eventi di una situazione cosmica che vede unite dieci persone, la decima non deve percepire quello che è in comune alle altre nove (per esempio il paziente di una operazione chirurgica con totale anestesia, allora tale decima persona non deve attendere che il tempo sia passato per continuare a sentirsi d'essere e perciò a esistere, ma passa subito alla sua prossima situazione da percepire, quella in cui gli altri la vedono destarsi. E non potrebbe essere diversamente da così; infatti il non sentirsi d'essere equivale a non esistere; perché la vita è coscienza; l'esistere è coscienza d'essere.

Se mancasse la coscienza d'essere, che nella sua forma più elementare è solo sensazione, mancherebbe l'esistenza. D'altra parte, anche logicamente, si comprende che non sentirsi di esistere equivale al sentirsi di non esistere; e com'è possibile che si senta di non esistere? Se non si esiste, non si può sentire; e se si sente vuol dire che si esiste.

Il sentirsi di esistere va oltre i cambiamenti di umore, oltre i desideri, oltre i pensieri, pur essendo vero che nella condizione di esistenza umana  è proprio l'attività quale azione, quale emozione che lo incentiva.
Il sentirsi di esistere va oltre anche i cambiamenti di personalità. Il fanciullo che cresce e diventa uomo muta sensibilmente il suo modo di concepire il mondo, i suoi gusti, i suoi interessi, tanto che se non vi fosse il sentirsi di esistere che, ininterrotto, lega il fanciullo all'uomo che è divenuto, si potrebbe benissimo dire che si tratta di esseri distinti.
Il sentirsi di esistere, unendo due stati d'essere diversi, dà la garanzia che si tratta di un solo essere. 

Ma questa garanzia ha valore assoluto? Non potrebbe trattarsi del sentirsi di esistere che scivola su tanti stati d'essere diversi secondo una qualche successione logica?
E quindi dare l'idea di un solo essere che muta il suo sentire? O, più ancora, trattarsi di tanti sentirsi di esistere che si rivelano, affermando la loro esistenza nella Eternità secondo una successione determinata dall'ampiezza della realtà da ciascuno contenuta, come una catena ininterrotta che conduca all'affermazione del più grande sentirsi d'essere, quello " assoluto ", termine d'ogni separazione e perciò d'ogni successione: sentire di Eterno Presente e di Infinita Presenza?

Senza arrivare a cotanta vastità, a un simile vertice, che è anche base di tutto, appare chiaramente che il sentirsi d'essere considerato a prescindere da quelli che chiamate stati d'animo contingenti, a prescindere dalla personalità che muta, rimane ininterrotto al di là del mutare della forma fisica. E quindi non è irragionevole credere che ne sia totalmente svincolato, tanto da sussistere in modo indipendente da essa quand'essa non è più.

Il sentirsi di esistere è il sentire del quale tanto vi parliamo, considerato nella sua forma più elementare, più limitata: è l'atomo del sentire. La massima espressione del sentire, quello che non conosce limitazioni, è il sentire assoluto.
Ad ogni caduta di limitazione corrisponde un sentire sempre più ampio; sempre più volto, aperto, proteso verso gli altri.
Altre volte vi abbiamo accennato a questo processo del graduale rivelarsi del sentire; vi abbiamo detto che inizialmente si svolge ed ha luogo per mezzo di stimoli di varia natura:  sensori, intellettivi, sentimentali, che l'individuo riceve principalmente vivendo nel mondo fisico. Che cosa significa, per l'uomo, « vivere », nel senso più esteso? Certo non v'è bisogno che ve lo illustri: la vita, con la sua fatica, le sue paure, le sue incertezze, con gli slanci, le speranze, le gioie, insomma con le sue esperienze che trovano nell'intimo dell'uomo il crogiolo in cui si trasforma il metallo vile in oro, la vita è la forza motrice per una simile metamorfosi. Ma il processo è graduale, le limitazioni cadono una alla volta.

Quand'è che cade una limitazione? - direte -  durante la vita fisica o dopo?
Va tenuto presente che la caduta di una limitazione è tutto un processo che può occupare più vite, in cui l'individuo può giungere a comprendere, ad assimilare una certa Verità, può sperimentare personalità l'una in antitesi all'altra. La limitazione cade quando l'individuo può operare una sintesi delle esperienze vissute ed imperniate su quella data limitazione. E non si creda che sintetizzare le esperienze vissute o trarne il conseguente significato sia un fatto prettamente intellettivo; gli impulsi che l'esperienza elargisce colpiscono l'intimo essere ed operano una trasformazione che fa maturare e predisporre alla comprensione finale.
Nessuno capisce, comprende ed accetta una Verità se non è pronto, maturo, predisposto. Nella sintesi finale dell'esperienza, che comprende varie fasi, gioca un ruolo importante la mente individuale;  tuttavia il suggello finale non verrebbe apposto, l'insegnamento dell'esperienza non diverrebbe « natura acquisita », ad opera della sola mente  se tutto l'individuo, con l'intero suo essere, non l'avesse vissuta. Ciò che la mente fa nella sintesi finale, che trasforma l'esperienza in natura acquisita, è una sola parte del processo di rivelazione dell'essere vero. Premesso questo, vediamo quando avviene la sintesi finale dell'esperienza che fa cadere la limitazione del sentire, rivelandosi così un sentire più ampio.

Mi riferirò ad una situazione che ricorre abbastanza frequentemente. E voi tenete presente che tutte le cadute delle limitazioni del sentire umano avvengono analogamente.
Nella cosiddetta evoluzione individuale - che altro non è che un cambiamento di scopo dell'attività esistenziale della propria persona, così da spostare il proprio interesse, prima rivolto su di sé, agli altri - puo' esservi una fase in cui l'individuo, dopo aver cercato vantaggi materiali ed essersi accorto che essi al massimo durano quanto il corpo fisico, ha un cambiamento di direzione del suo interesse e della sua attività, persegue vantaggi che, secondo lui, possono seguirlo oltre la morte.
Questa risoluzione l'individuo la prende, come generalmente tutte le altre, dopo la morte, quando con la maturazione raggiunta alla fine della sua vita rivede e rivive la sua esistenza e trae la conclusione che ho detto e che a lui sembra la più vera.
Ha così una vita in cui è dedito ai riti religiosi, ma non con il giusto sentire, bensì solo formalmente, per meritarsi la benevolenza e il premio divino. In questa seconda esperienza - che è anch'essa solo una parte di quella esperienza totale che lo condurrà alla caduta di una limitazione del suo sentire - comprende che Dio non ama più chi lo loda di quanto ami chi lo bestemmia, e che la religiosità non dà, da parte di Dio, alcuna particolare protezione né alcun vantaggio materiale.

Anche questa conclusione, generalmente, la trae dopo il trapasso, quando raggiunta una data maturazione attraverso il vivere rivede la sua trascorsa esistenza e le altre che sono servite a costruire compiutamente l'esperienza totale che produrrà ora la caduta della limitazione del sentire. Questo rivedere, con la maturazione raggiunta da ultimo, dà il senso compiuto all'intero contesto esperito ed è il suggello finale della trasformazione in propria natura di quell'insegnamento che l'esperienza doveva donare. Nel caso particolare la sua avidità perde l'eccesso; cioè egli sarà ancora avido, perché perseguirà ancora il suo vantaggio personale, ma non al punto da condizionare, da subordinare totalmente la sua esistenza. In pari tempo inizierà ad esservi in lui, proprio a seguito della caduta di quelle limitazioni del sentire, un primo larvato senso di dovere: cioè farà qualcosa che, secondo le convenzioni, si è tenuti a fare, anche se il farlo non dà alcun particolare tornaconto.

Liberato cosi dalla limitazione, il sentire rivelato si unisce agli altri sentire che gli sono equipollenti, anch'essi a seguito di analogo processo, costituendo in tal modo un sentire nuovo, un essere nuovo che, manifestandosi nel mondo fisico, incontrerà una serie di altre esperienze che condurranno ad altre liberazioni, ad altre comunioni, ad altre manifestazioni.
Voi stessi, con il vostro sentire, siete la sintesi di esperienze di molti altri soggetti ubicati in tempi e spazi diversi e che hanno nel sentirsi di esistere quel filo, quel collegamento, quella continuità che, essendo l'unica cosa che sopravvive, è la vera sopravvivenza. Il resto, la personalità, il carattere, il modo di agire, di desiderare e di pensare mutano e perciò finiscono d'essere quel che sono; chi condiziona la sua futura esistenza alla sopravvivenza delle sue caratteristiche si rassegni a morire.

Poiché niente, in assoluto, tuttavia trascorre e sparisce, nella profondità e nella vastità dell'essere di ciascuno di voi sussistono tutte le personalità, tutte le esistenze degli individui che hanno concorso alla costituzione del sentire che state manifestando. Questo sentire attuale contiene in sé, per ampiezza, tutti i sentire costituenti, anche se non vi dà il ricordo storico e cronologico degli eventi connessi a quei sentire, a quelle esistenze trascorse.

Tale ricordo può tuttavia essere suscitato. Più volte abbiamo ripetuto che la consapevolezza dell'uomo non contiene tutta la sua coscienza, il suo sentire. Ma ciò non significa che il suo attuale sentire sia qualcosa di staccato, lontano, sublime, raggiungibile con sforzo. La spiegazione della nostra affermazione sta nel fatto che il vostro sentire di uomini si manifesta solo come risposta agli stimoli ambientali; perciò se la vita non vi sottopone a certi stimoli non avete consapevolezza di come sentireste in quella particolare situazione. Non vale infatti immaginare cosa sentireste e come vi comportereste in una certa evenienza, in una data occasione; teoricamente si possono dire tante cose, ma poi, all'atto pratico, ci si comporta diversamente proprio per la ragione che solo allora, quando la vita presenta il suo stimolo, il sentire si manifesta; o meglio, allora l'individuo agisce come veramente sente.

Quando invece il sentire è più ampio, allora fluisce liberamente e non solo quale risposta agli stimoli esistenziali.
Taluno di voi, sporadicamente, ha sperimentato attimi di intensa esistenza, quando si comincia a sentire di far parte di un tutto e si sente un trasporto, uno slancio di amore verso tutto quanto esiste. Sono rari momenti e, per quanto intensi possano sembrare, non sono che l'ombra di quella piena beatitudine che è caratteristica naturale dell'esistenza che attende l'uomo: l'esistenza del superuomo.
Per bene intendere il concetto, da un tale progressivo liberarsi, aggregarsi, ampliarsi del sentire, va tolta ogni propensione concettuale della realtà in divenire. Tutto è, niente trascorre: tutto si rivela a se stesso, tutto afferma la sua esistenza nell'istante di un tempo che non esiste, in un punto dello spazio illusorio.
Tutto si manifesta per un solo attimo che in sé è eterno:  in quell'attimo è l'eternità.

Perché mai contate le ore, i giorni, gli anni? Il sentirsi di esistere non conosce fine, anzi è eterno, perché è al di là del tempo. Stolti, che vi fermate e volete immobilizzare il caleidoscopio delle forme che esistono proprio in forza della loro stessa variabilità, della loro stessa caducità. Che cosa volete fermare? La forma delle nubi? Che cosa volete imprigionare? Il pensiero? Non vi fermate all'esteriore, a ciò che appare. Non desiderate di godere per sempre del profumo del fiore, ma siate ciò che fa fiorire e profumare.
Siate consapevoli che tutto lo spettacolo che si svolge di fronte alla vostra osservazione, e di cui siete fatti protagonisti, ha il solo scopo di ampliare il sentirsi di esistere che ciascun essere è fino ad abbracciare ed esprimere la Totalità del Tutto.
                                                                                                                                                  KEMPIS