domenica 27 novembre 2011


 
 
 
 

Non è raro che i problemi di filosofia possano sembrare, ai non addetti ai lavori, sterili elucubrazioni mentali, trastullamenti teorici che non servono a niente e a nessuno.
Riportare all'attualità le questioni filosofiche fondamentali è un problema che non tutti i filosofi di professione si pongono. Così un problema come quello del cognitivismo etico, e cioè il domandarsi se possa esistere o meno un'etica riconosciuta necessariamente e universalmente, può apparire come qualcosa di futile quando c'è ad esempio chi è costretto ad occupare scuole in disuso perché non ha i soldi per pagarsi una casa o quant'altro sia necessario per vivere.

Eppure, in un momento di crisi mondiale come quello che ci troviamo a vivere in quest'epoca storica, la domanda su cosa sia giusto e cosa sia sbagliato non sembra certo essere priva di attualità.
La crisi delle strutture economiche e politiche porta spesso anche al crollo dell'apparato culturale e ideologico che su di esse si fondava. Che si sia o meno d'accordo col pensiero marxiano, è un fatto che molte delle regole sociali che seguiamo derivano direttamente dall'apparato economico-politico su cui si fonda il paese in cui viviamo. Inevitabile quindi, quando tutto sembra sgretolarsi, una crisi dei valori.  
Così ci si trova di fronte, ad esempio, alla necessità di giudicare le violenze di piazza. Certo, si può nascondere la testa sotto la sabbia e raccontarsi che essa è frutto di pochi balordi amanti della ferocia e della prepotenza. Ma se ci si imbatte con estrema facilità in qualcuno che cerca di spiegarti la necessità della rivoluzione violenta, cominci a pensare che sia necessario un ripensamento dei valori su cui fino al giorno prima si fondava tutta la tua esistenza.
Si ripropone allora con maggior vigore quella domanda che può sembrare un vano esercizio intellettuale in momenti di maggiore tranquillità: è possibile creare un sistema di valori che sia universale e necessario? Un sistema di regole sociali stabile, in grado di resistere alle evoluzioni storiche e culturali? Un'etica scientifica, che fondi le sue massime su verità inattaccabili, eterne e immutabili?

Riconosco che la questione in un’epoca in cui si impone sempre di più il multiculturalismo, e con esso la necessità di far convivere insieme sistemi di valori differenti, rispettando tutte le forme di pensiero -, può sembrare anacronistica.
Tuttavia, se è vero che, fino a quando due sistemi di valori non entrano in contrasto tra di loro, la  convivenza può avvenire in maniera pacifica senza che sussistano discussioni su chi abbia ragione o torto, molto più problematico è il caso in cui tali sistemi si trovino in radicale disaccordo su questioni cruciali riguardanti il benessere fisico e psicologico della società che si trovano a condividere.


A metà del Novecento  la degenerazione prima economica e poi politica della Germania, portò a far credere a moltissimi tedeschi che fosse “legittimo”, e addirittura “giusto” uccidere milioni di persone solo sulla base della loro provenienza razziale.
Non voglio in nessun modo paragonare questo momento storico con quello, né penso che si possa giungere alle medesime tragiche conclusioni, ma voglio mettere in evidenza una questione molto importante: il fatto che oggi la maggior parte di noi consideri quell'evento storico come un’aberrazione, come una violazione inaccettabile dei diritti umani, è dovuto al fatto che la maggior parte di noi condivide il principio secondo il quale tutti gli uomini nascono con pari dignità e diritti.
Ma tale principio, lungi dall'essere ovvio, è rigettato da molte culture che giudicano il valore di una vita umana in base a criteri completamente differenti da quelli dell'uomo occidentale medio.

Ecco quindi il cuore della questione: non esiste, O almeno non è stato ancora trovato, un principio fondamentale, che sia condivisibile da tutti gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo, sul quale poter fondare un sistema di valori fondamentali stabili.
Scrive Paolo Flores d'Arcais in un articolo comparso sull'Almanacco di Filosofia di
"Micromega"[1]: "La dimostrazione dell'esistenza di una legge morale naturale non può avvenire in modo circolare, sostenendo che chi non riconosca o condivida tale legge dimostri con ciò la sua aberrazione rispetto alla “natura umana”, manifesti il suo essere disumano: non possiamo presupporre come già dato cosa sia naturale o contro natura, umano e disumano visto che proprio questo è quanto dobbiamo dimostrare.” 
Non possiamo stabilire che cosa sia “disumano” se prima non ci accordiamo su cosa sia la “natura umana”; non possiamo dire che una norma, un comportamento siano giusti o sbagliati se prima non stabiliamo un criterio di giustizia. 
E se questo criterio c'è, ma è solo relativo alla cultura di riferimento, allora non potremmo mai definire nulla, nemmeno il burka o lo stupro, nemmeno l'olocausto, come assolutamente sbagliati e inaccettabili.
È
  questa una questione che domina la discussione filosofica fin dai suoi albori, basta pensare all'inesauribile disputa fra Platone e i sofisti. 
Qualcuno, nel corso dei secoli, si è rassegnato alla non reperibilità di un principio universale su cui fondare l'etica, e quindi ha accettato la conclusione relativista per cui un'azione è giusta o sbagliata solo in base al sistema di valori a cui fa riferimento, come appunto sosteneva il sofista Protagora. 

Forse avrete già intuito che chi scrive è invece convinta che tale principio debba sussistere, e che uno dei doveri principali della ricerca filosofica presente e futura debba essere proprio quello di stabilire se esso esista o meno e, se esiste, concentrare tutti gli sforzi nel definirlo in maniera chiara e comprensibile a tutti. 
Contrariamente a quanto pensano molti intellettuali contemporanei, non è l'imposizione di un dogma etico che genera totalitarismi, e conseguenti tragedie umane, ma è proprio il sancire l'equivalenza di tutti i valori che apre la strada all'affermazione di principi che seguono la semplice legge del più forte, sia questa forza fisica, dialettica, economica o politica.
La libertà, sebbene in una certa misura sia sacrosanta, è innanzitutto possibilità di sbagliare. E non è un caso forse che proprio questa parola dal suono tanto nobile sia stata la bandiera di un partito che ha devastato l'Italia negli ultimi anni. 

Mi rendo conto che l'idea di un principio di giustizia che sia inattaccabile possa sembrare un concetto retrogrado e possa perplimere più di qualcuno, proprio perché sembra mettere in pericolo la convivenza di culture diverse, ma in realtà è esattamente il contrario. Soltanto stabilendo alcuni punti fondamentali che nessuno può mai permettersi di scavalcare è possibile una civile convivenza tra miliardi di persone che hanno idee, origini e convinzioni diversissime tra di loro.
Perché sussista un tale principio esso dovrebbe avere il carattere dell'evidenza. 
Non si tratta di trovare una norma che metta d'accordo tutti, accettata convenzionalmente, ma di una verità inattaccabile a cui ciascuno deve necessariamente dare il proprio assenso. Non si è d'accordo con la legge di gravità, ma tutti sono “costretti” a riconoscere la sua validità. 
Il principio su cui dovrebbe fondarsi l'etica universale dovrebbe avere quindi lo stesso carattere di scientificità della legge di gravità. 
Per fare questo è quindi necessario che la filosofia si affianchi a discipline rigorose come la medicina, la biologia e l'antropologia, che studiano l'uomo da un punto di vista scientifico; che la smetta di farneticare e perdersi in discussioni autoreferenziali che nascono e muoiono nelle aule universitarie.  Essa deve tornare in mezzo agli uomini, affiancarli e costituire un sistema di riferimento indubitabile in cui il sentimento di indignazione diventa un dovere politico e morale, in cui è necessario lottare per diritti che, pur apparendo fondamentali, sembrano poter essere messi in discussione in ogni momento e senza possibilità di appello.



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